Ciò che un capo non vorrebbe mai sentire

La scorsa settimana aprendo la pagina iniziale di yahoo mi sono trovato di fronte a un articolo dal titolo “le 5 frasi da non dire mai al capo”, nel quale si faceva riferimento a argomentazioni e parole che al “boss” suonerebbero stonate, facendogli pensare male del proprio collaboratore.

Sulla scorta di questo “pezzo” (che credo possiate ancora rintracciare digitandone il titolo) mi sono venute, spontanee, alcune riflessioni ed integrazione di questa semplice, ma veritiera, lettura.

Ma quali sono queste cinque frasi che il capo non vuole sentirsi dire?

Se c’è una frase che non vuole sentire è “Non è colpa mia”. La maggior parte dei capi, per quanto i testi di management invitino alla propositività, non vivono i problemi come un’opportunità, bensì come un limite, un ostacolo, una rottura da cui uscire al più presto. “Non è colpa mia” potrebbe suonare ad alcuni, nella migliore delle ipotesi, come uno scarica barile o, peggio ancora, come un dito puntato contro di loro. Al manager, sicuramente nel brevissimo, non importa sapere chi è stato la causa di un problema, ma interessa trovare chi sappia risolvere la situazione. Ricordo un direttore commerciale che aveva posto in bella vista di fronte alla porta d’ingresso del suo ufficio una lavagna a fogli mobili sulla quale era scritto, a caratteri cubitali, “qui non si entra per portare problemi, ma soluzioni” . .  .

Un’altra frase che può “mandare in bestia” un capo è “non serve che nessuno mi insegni”, soprattutto se la supponenza di chi proferisce questa frase non è supportata da una quantomeno pari efficienza. Questa indisponibilità all’ascolto e alla collaborazione irritano fortemente il nostro interlocutore. Tre anni fa feci chiedere  a un formatore, sul quale avevo ricevuto da un cliente riscontri non proprio lusinghieri, di studiare meglio il corso che stava erogando, ed applicarsi di più. Per tutta risposta ricevetti un “di a Castellani che ho 50 anni, 2 lauree e un master, e che non deve essere lui a dirmi cosa devo o non devo imparare” . . .

Tra i top del disinteresse manifesto citerei “non è un mio problema” che, oltre a suonare come una provocazione, sicuramente evidenzia un distacco evidente; che questo nasca da dissapori, incomprensioni, delusioni, ecc. è comunque un segnale di “rottura”. Della stessa famiglia del “non è colpa mia” , inserisce l’aggravante dell’assoluta mancanza di volontà di assumersi responsabilità. Nasce sicuramente da una visione miope delle cose, e probabilmente della vita, per la quale, tutto ciò che sta fuori dei nostri confini non ci riguarda . . . finché non ci tocca.

Le altre due frasi menzionate nell’articolo sono “posso fare solo una cosa alla volta” e “tengo famiglia”. Mentre la prima suona come una frase fatta che manifesta, secondo l’articolista, avversione nei confronti del lavoro (ma anche grossi limiti se la frase rispondesse al vero), la seconda parrebbe o una scusa bella e buona, ovvero anteporre il proprio privato alla vita aziendale; le persone (capi e colleghi) pur essendo comprensive, non amano chi si approfitta di loro. A tutto c’è un limite, anche perché si possono fare più di una cosa alla volta, e quasi tutti abbiamo famiglia, ma non per questo scarichiamo le nostra inefficienza sugli altri.

A volte non c’è niente di più demoralizzante dell’avere a che fare con persone che non solo pronunciano queste frasi, ma che, a ben guardarle, le incarnano nei propri comportamenti.

Molte di queste persone non si rendono neppure conto che si stanno comportando male.

Solo raramente le persone difficili vedono se stesse come tali, ed è perciò improbabile che ritengano di dover fare autocritica, salvo poi “lamentarsi” quando argomenti, atteggiamenti e prese di posizioni simili, vengono rivolti a loro.

Concludo con un aforisma che da oltre 20 anni è il mio punto di partenza per capire il perché di molte cose che mi riguardano  “come si chiama nel bosco, il bosco risponde”.

Le persone determinano il futuro della propria azienda

All’inizio degli anni 90 mi trovai spesso coinvolto in quelle che allora si chiamavano “indagini del clima aziendale”, un questionario anonimo che quasi tutte le aziende sottoponevano ai propri dipendenti (ogni uno o due anni) al fine di conoscerne la percezione dell’ambiente di lavoro.

La maggior parte di queste aziende ha abbandonato tale pratica velocemente (un po’ perché per alcune “modaiola”, e un po’ perché non sempre fa piacere sentirsi dire quello che non si vorrebbe sentire, pur avendolo sotto gli occhi).

Le più serie e motivate ai processi di miglioramento perseverano nel voler conoscere il punto di vista dei propri collaboratori, accogliendone volentieri anche i suggerimenti, e ancora oggi, molto meno spesso di 20 anni fa, mi trovo coinvolto in queste attività che, se fatte con dovizia, sono estremamente utili al perseguire i risultati che ogni azienda si attende.

Se è vero che il futuro di una società e di un ente dipende dalla sua capacità di soddisfare i criteri selettivi del mondo esterno, e quindi essere in grado di produrre e fornire beni e servizi in grado di soddisfare le richieste e le aspettative di clienti e utenti, è difficile immaginare un’azienda che sia in grado di soddisfare tali richieste ed aspettative avvalendosi di persone con basso livello di qualità comportamentale ed attitudinale o, peggio ancora, demotivate.

Lo stesso dicasi per le attività di un reparto, di un’azienda, di un’organizzazione.

Concentrarsi sulla qualità di prodotti e processi, ma allo stesso tempo trascurare la crescita delle proprie persone, vuol dire non curarsi, soprattutto per chi opera nei servizi e quindi nell’offerta di beni intangibili, e perciò molto spesso indifferenziati (si pensi alle banche, alle agenzie di assicurazioni, alle agenzie immobiliari, utility, ecc.), degli sforzi e delle performance individuali che possono determinare percezioni “buone” o “cattive” da parte del cliente, per cui la qualità del servizio diventa quasi un sinonimo di qualità personale.

Lo stesso vale anche per chi vende beni tangibili e differenziabili, anche se qui, a volte, prodotto e prezzo possono aiutare nella vendita, ma non nella fidelizzazione.

Se tutto il personale di un’azienda facesse del proprio meglio, e fosse realmente “impegnato” ogni giorno, qualunque organizzazione avrebbe un futuro promettente.

Purtroppo ho riscontrato, a torto o ragione, e per i più svariati motivi, che la gran parte delle risorse non sono motivate ad esprimere il massimo del proprio potenziale.

Interrogate sul perché la risposta più gettonata è stata “non mi sento motivato per rendere come potrei”; potremmo discutere per paginate su questa frase, ma escludendo quelli che utilizzano la parola “motivazione” in modo strumentale e puramente gratuito, occorre definire un punto fermo: il compito più importante del management è ottenere il massimo dalle persone, che sono la più importante delle risorse di ogni organizzazione.

Una società con prodotti e servizi, ma soprattutto persone, di “qualità” avrà molto probabilmente clienti soddisfatti ed opererà in un’atmosfera di soddisfazione fatta di risultati finanziari  e immagine migliori, e quindi predisponendosi ad un futuro più roseo.

Un senso di orgoglio, per un ciclo positivo di sviluppo, fatto dai successi dell’azienda, crea una sensazione generale di benessere, stimolando lo spirito di gruppo, valorizzando il singolo.

Sta al manager (capo o supervisore che dir si voglia) ispirare ogni persona a dare il massimo al fine di migliorare costantemente i propri standard, sta alla persona cogliere questa ispirazione sapendo che non sarà solo l’azienda a beneficiare del suo sviluppo, ma lo sarà anch’ella a livello individuale, estendendo tale beneficio alle proprie relazioni familiari e sociali.

Quelli che possono fanno, quelli che non possono formano (G.B. Shaw)

Partendo dal fatto che, fosse solo per amor proprio, non mi è possibile sposare questa affermazione, aggiungerei che non si può ammettere il distacco tra il saper fare e il saper trasferire i propri saper fare, quantomeno come conoscenza.
Che un manager sia anche formatore, o che il formatore sia anche manager sono prerogative che non possono essere disgiunte se l’obiettivo è assicurare la trasmissione, la circolazione e la generazione dei saper fare e dei saper essere.
La domanda che pongo è “Un manager che non sa trasmettere ciò che sa, o che non trova il tempo per farlo e che non ha il coraggio di definire se stesso in rapporto all’utilità verso gli altri, può comunque essere definito un manager competente?”

Dare e dimostrare valore nel proporsi

La scorsa settimana abbiamo parlato di promesse e di messaggi, ora parliamo della parte più complicata: la coerenza.

Se sappiamo promettere e scrivere bene, sappiamo altrettanto conquistare i clienti nelle conversazioni, e sappiamo offrire e far percepire “face to face” il nostro valore?

Ogni mattina, imprenditori, professionisti e venditori, si apprestano ad iniziare conversazioni con i clienti (attivi o potenziali) allo scopo di vendere efficacemente i propri prodotti e servizi.

Ma, quali sono gli elementi essenziali che trasformano una semplice conversazione in una “conversazione di valore”?

Perché questo processo di comunicazione si compia, è necessario che imprese e clienti, entrambi soggetti che prediligono il monologo, trovino il modo di interagire, con la consapevolezza che chi vende ha normalmente più necessità di interloquire, rispetto a chi vorrebbe e potrebbe comprare.

L’impresa parla di prodotti, servizi, processi e caratteristiche.

Spesso enfatizza alcuni benefici rispetto ad altri, magari differenzia l’offerta dalla concorrenza ma l’elemento essenziale è che parole e significati provengono esclusivamente dal suo mondo.

Il cliente al contrario, come abbiamo visto, ha una sua visione del mondo ed un linguaggio fatto di domande, di dubbi e di insicurezze su come scegliere quella che è la migliore soluzione per un determinato problema.

Come utilizzare una comunicazione che dia valore e dimostri valore, e soprattutto sia condivisibile dal cliente?

Nella maggior parte dei casi le persone concentrano la loro attenzione sul valore esclusivamente al momento della transazione economica.

Nel tentativo di portare all’acquisto, molti si concentrano solo sull’ottenere qualcosa dal potenziale acquirente.

Cosa succede se si prova a fare il contrario, cioè  cominciando a dare valore?

Dando valore al cliente in anticipo, rischieremmo di diventare persone delle quali ci si può fidare, anziché essere considerati come dei semplici tramite del trasferimento di beni o servizi.

Ma cosa può creare valore per il cliente?

Se torniamo a quanto detto sempre la scorsa settimana circa il processo d’acquisto, sicuramente creeranno valore informazioni circa la soluzione dei suoi problemi grazie a determinati prodotti-servizi, piuttosto che quelle legate all’importanza di non procrastinarne la risoluzione al fine di ovviare a impatti non favorevoli, ovvero informazioni comparative che dimostrano come una soluzione è migliore rispetto ad un’altra, o anche informazioni su come utilizzare determinati prodotti piuttosto che altre che dimostrano come la soluzione più comune per un determinato problema non sia la più efficiente o efficace, e così via.

Al dare valore deve seguire poi il dimostrare valore.

Essere capaci di dimostrare il valore significa provare che la soluzione che si è in grado di fornire è importante per lui, perché corrisponde alle sue aspettative e risolve il suo problema, dimostrando con i fatti di essere in grado di mantenere quanto promesso.

Tutta la comunicazione dovrebbe essere basata sul rispetto per l’individuo e sull’apprezzamento del valore.

Una strategia di comunicazione dovrebbe sostenere, favorire e rafforzare la missione e la cultura dell’organizzazione.

E’ per questo che, per favorire interazioni produttive,  ci vuole una comunicazione di qualità a tutti i livelli.

Dare valore alla propria comunicazione

In tempi di crisi trovare e conquistare nuovi clienti diviene sempre più difficile, lungo ed economicamente dispendioso.

I clienti che acquistano un qualunque prodotto (o servizio) seguono una mappa, anche se spesso lo fanno in modo inconsapevole.

E’ come se affrontassero una sorta di viaggio.

Ovviamente, in funzione della complessità dell’acquisto, i modi con cui il cliente analizza il prodotto, l’azienda  ed anche il singolo venditore, cambiano radicalmente.

Ogni acquisto, dal più semplice al più complesso, presenta delle domande alle quali il cliente vorrebbe ottenere risposte, che risolvano i suoi dubbi, le sue ansie, le sue paure e perplessità.

Nel caso degli acquisti più semplici, il processo è veloce, nel caso di beni e servizi più articolati, il modo in cui questi vengono acquistati è ovviamente differente.

Questo significa che il nostro comunicare con i clienti, nelle varie fasi del ciclo d’acquisto, deve essere coerente; se il modo in cui si vende è diverso da come il cliente acquista, non c’è da stupirsi che le strategie e le tattiche utilizzate si rivelino inefficaci ed improduttive.

Che si vendano prodotti o servizi, piuttosto che un mix di entrambi, il successo e l’efficacia delle attività di marketing e comunicazione si basano sulle promesse.

Il punto fondamentale, non è la promessa in sé, ma il fatto che questa sia credibile agli occhi dei clienti: avere la capacità (e dimostrarla) di mantenere le proprie promesse significa salire ulteriormente di un gradino nel conquistare la fiducia di un cliente.

I messaggi debbono raggiungere il “cuore” dei clienti, e quindi devono:

  • Comunicare efficacemente la propria posizione sul mercato;
  • Spiegare le ragioni per le quali acquistare da noi, e non dalla concorrenza;
  • Catturare l’attenzione del nostro target;
  • Argomentare e motivare ad una azione specifica;
  • Ridurre il rischio percepito e rendere facile fare affari con noi;
  • Spiegare i problemi che risolviamo per loro;
  • Dimostrare i risultati che si possono aspettare dal lavorare con noi;
  • Provare che i nostri prodotti e servizi sono la soluzione ad un problema per loro importante.

Un messaggio che va dritto al cuore dei nostri clienti comprende e integra questi elementi:

1) Identifica il target con precisione per scolpire un messaggio che può essere recepito senza possibilità di errore;

2) I problemi che risolviamo, individuando quelli essenziali, evidenziandoli chiaramente e focalizzando la comunicazione su quelli che i clienti sentono come urgenti e rilevanti al punto  da esser disposti a pagare per risolverli;

3) Illustra le soluzioni, sottolineando con precisione quali adotteremmo e perché, esplicitandone l’opportunità, i risultati, i vantaggi e i benefici.

4) Dimostra l’unicità delle nostre soluzioni, e che siamo in grado di risolvere i problemi come nessun altro dei concorrenti riesce a fare; i clienti devono sapere perché scegliere noi e non un altro.

5) Dimostra ed argomenta come altri hanno avuto successo con questa soluzione, aiutando le persone a superare i propri dubbi, le insicurezze e le paure; includendo nei messaggi i risultati,  le esperienze,  per aggiungere elementi importanti di credibilità.

6) Elimina il rischio delle paure e di qualunque forma di insicurezza offrendo garanzie, piuttosto che periodi di prova, o consulenze introduttive, ecc.

Come abbiamo scritto in apertura “in tempi di crisi trovare e conquistare nuovi clienti diviene sempre più difficile, lungo ed economicamente dispendioso”, ecco perché oggi più che mai dobbiamo pensare ad una comunicazione mirata, diretta ed incisiva.

Possiamo comunicare la “nostra credibilità”?

I successi e l’efficacia delle attività di marketing, vendita e comunicazione si basano sulle promesse.
Il punto fondamentale, non sono le promesse in sé, ma il fatto che queste siano “vere” agli occhi dei clienti per i quali “a parole siamo tutti bravi”.
A questo punto sorge spontanea la domanda:
Una comunicazione che vuole essere distintiva ed efficace, e che vuole arrivare dritta al cuore del proprio cliente, come può spendere, sostenere e mantenere la credibilità di chi la propone?