Ansia? No Grazie!

Alexis Carrel, chirurgo e biologo francese, premio nobel per la medicina e la fisiologia nel 1912, soleva dire “gli uomini d’affari che non sanno vincere le preoccupazioni muoiono giovani”.

Lo stesso dicasi delle casalinghe, dei veterinari, dei muratori e di chiunque altro non sappia controllare le proprie preoccupazioni e paure.

La TV e i media tendono ad informarci e metterci in guardia  su malattie rare e pandemie varie, che però lasciano sul campo molte meno vittime del “morbo della preoccupazione”.

Nessuno si scomoda per dire che circa una persona su dieci ha, o ha avuto, un collasso nervoso, provocato il più delle volte da preoccupazioni e conflitti emotivi.

Molti medici, compreso il mio, affermano che almeno il settanta per cento dei pazienti che si presentano da loro potrebbero guarire da soli se soltanto riuscissero a liberarsi dalle loro paure ed angosce.

Nessuno vuol sostenere che i loro mali sono immaginari, questi sono certamente concreti, ma alcuni di loro derivano dalla somatizzazione delle loro preoccupazioni che generano tensione e nervosismo, colpendo lo stomaco, alterando i succhi gastrici e dando vita a malattie quali dispepsia nervosa, ulcere allo stomaco, insonnia, disturbi cardiaci, emicranie e cefalee.

La maggior parte delle nostre ulcere non derivano da quello che mangiamo, ma da ciò che ci mangia, e il più delle volte appaiono e scompaiono a seconda degli alti e dei bassi della tensione emotiva.

Indagini cliniche su un gruppo campione di 180 dirigenti (età media 44 anni circa) riferiscono che più di un terzo di queste persone soffre di disturbi peculiari a chi conduce una vita intensa: disturbi cardiaci, ulcere all’apparato digerente, elevata pressione arteriosa.

Si possono chiamare fortunate quelle persone che pagano il loro successo sul lavoro contraendo queste malattie, e vale la pena di conquistare il mondo a prezzo della propria salute?

Per quanto buona parte dei posti in ospedale siano occupati da gente affetta da disturbi nervosi, è incredibile il fatto che, quando i loro nervi, durante un’autopsia, vengono esaminati al microscopio, risultino sanissimi.

I loro “disturbi nervosi” non sono causati dal logorio fisico del sistema nervoso, ma dalle loro emozioni, delusioni, ansie, preoccupazioni, paure, insuccessi, esasperazione causati, molte volte, da quelli che i più definirebbero banali contrattempi.

Platone diceva “il più grande errore dei medici è di cercare di curare il corpo senza darsi cura dello spirito; eppure spirito e corpo sono una cosa sola, e non dovrebbero mai essere considerati separatamente”.

L’ansia può prostrare anche le persone più solide.

Quando Montaigne, il famoso filosofo francese, fu eletto sindaco di Bordeaux, la sua città natale, disse ai suoi concittadini “sono disposto a prendere i vostri affari nelle mie mani, ma non nel mio fegato o nei polmoni”.

Il dottor Russel L. Cecil specialista in artriti di fama mondiale elencò quattro delle cause più comuni dell’artrite: disgrazie coniugali, dissesto e imbarazzi finanziari, solitudine e ansia, rancori di lunga durata.

Dai suoi diari si legge che una signora era ridotta pelle ed ossa a causa del cancro e delle conseguenti cure, e che nessuno la vide mai versare una lacrima, ma solo sforzarsi di sorridere.

Diceva “non sono così sciocca da credere che basti sorridere per guarire dal cancro, ma sono convinta che la serenità di spirito e il buonumore aiutino l’organismo a reagire al male”.

Che ci si creda, o meno, guarì quasi miracolosamente, aiutando la medicina a fare la sua parte.

Se la nostra realtà non ci piace, smettiamola di tormentarci, e cerchiamo di fare qualcosa che allontani da noi il tormento . . . per sempre.

Se amiamo la vita e desideriamo vivere a lungo e in buona salute, ci vengono ancora in soccorso le parole del dottor Alexis Carrel “coloro che mantengono la calma interiore nel tumulto della babele moderna sono immuni da disturbi nervosi”. (… babele moderna ai primi del ‘900 …)

Molti di noi sono più forti di quanto pensano.

Sentirsi manager, ma non esserlo per davvero

Esiste una differenza fra chi vuole essere manager e chi lo è.

Chi lo è, di solito, non ha bisogno di impegnarsi per farsi riconoscere come tale, e quindi non avrà bisogno di interpretare il ruolo secondo un copione, a meno che non si trovi di fronte qualcuno che, per un giusto impatto, necessiti proprio di comportamenti come da copione.

Essere manager comporta quindi operare in ambienti diversi, ma soprattutto con persone diverse.

Collaboratori, pari , superiori, colleghi di altre organizzazioni e tutti coloro che, muovendosi nella società, hanno un impatto con la sua vita professionale, costituiscono uno dei “mondi umani” del manager.

Egli deve pertanto tener sempre conto degli effetti trascinativi che la sua comunicazione comporta, sapendo che la complessità di ogni organizzazione aumenta man mano che aumenta il numero delle persone con cui è necessario avere relazioni dirette.

Le organizzazioni più semplici sono quelle composte da 2 o 3 persone, nelle quali le relazioni di prevalenza o dipendenza sono semplici e chiare; ma più aumenta il numero delle persone (n) più aumentano a dismisura i canali di comunicazione in base alla formula n*(n-1)/2.

In base a questa formula se le persone sono 5, i canali di comunicazione saranno 10, e se le persone sono 10, i canali di comunicazione saranno 45.

Da ciò appare intuitivo capire come nel management sia necessario organizzare anche le comunicazioni e, attraverso queste, le relazioni, al fine di non farsene travolgere.

Quindi la capacità di gestire e recitare la propria immagine con distacco e senza perdere di vista gli obiettivi del suo lavoro è una delle qualità dell’essere davvero un manager.

Chi vorrebbe diventare un manager?

  • Coloro che in famiglia respirano già l’ambiente
  • Coloro che pur essendo partiti professionalmente con obiettivi diversi hanno nel corso della carriera la possibilità di scegliere questo ruolo
  • Coloro che fin dall’inizio partono decisi per arrivare ad esserlo

Questi ultimi sono mediamente i più motivati a raggiungere il ruolo e più disposti ad impiegare ogni energia allo scopo; sono però facilmente anche i meno equilibrati in quanto il solo fatto di divenire “capi e vincenti” nasconde desideri di rivalsa e riscatto generalmente non molto frequenti nella media della popolazione, e sono quindi esposti allo sbilanciamento di una personalità non completamente assestata, cioè con problemi consci o inconsci non ancora risolti.

In queste persone è altissimo il pericolo di aumentare a dismisura la propria autostima, sentendosi molto più in alto degli altri, imponendo la propria immagine oltre che le proprie idee, ritrovandosi, nei rapporti interpersonali, con ben poche persone con cui confrontarsi alla pari.

Da qui la perdita della capacità di ascoltare, osservare con obiettività e acquisire concetti e informazioni da quelle persone che si cominciano a vedere troppo dall’alto.

Cominciano così ad operare deduzioni di management in modo presuntuoso, rapido e superficiale, rischiando di incappare in fallimenti operativi e reputazionali.

Questi problemi si verificano soprattutto in coloro che hanno dovuto riversare troppo nella professione in termini di riscatto emotivo, con una personalità sana, ma non matura, troppo tesa a fuggire in avanti, come se correndo in avanti si potesse sfuggire al momento della verità e dell’accettazione di se stessi.

Difficilmente chi ha la coda di paglia, o chi ha la paura di essere scoperto per ciò che intimamente pensa di essere, e cioè un debole, diventerà un buon manager.

Prima o poi, anche se riesce ad operare discretamente, qualcuno gli andrà a vedere le carte, e riuscirà a batterlo proprio sul piano delle doti di personalità.

Chi non sa trasmettere “ciò che sa” è un manager competente? Seconda parte

Come anticipato la scorsa settimana, concludiamo la sintesi delle riflessioni sull’ammissibilità di un distacco tra il saper fare e il saper trasferire grazie ai 14 contributi di manager, formatori ed esperti di gestione delle risorse umane.

Anche se In linea puramente di principio non esiste managerialità senza abilità a trasferire,
ancora oggi, nelle aziende moderne, vi sono manager che tendono a custodire gelosamente informazioni e competenze; non a caso la “delega”  è la skill che evidenzia le maggiori carenze.

Ancora oggi il comune “sentire” divide il mondo dei manager in due categorie: quelli che scelgono dei bravi e potenziali collaboratori a cui trasmettere la conoscenza (anche se poi il rischio è quello di avere dei concorrenti in casa) e quelli che, invece, si circondano di elementi poco capaci garantendosi l’onnipresenza e una presunta “onnipotenza”.

C’è chi dice che questa sia una prerogativa tipicamente italiana in quanto nei paesi anglosassoni il “mentoring” è comune ed utilizzato, e in molte company è addirittura una prassi consolidata; la competenza manageriale, pertanto, viene anche valutata in conseguenza della capacità di saper trasmettere agli altri il proprio sapere.

Se per alcuni la ritrosia a trasferire conoscenza può essere legata al desiderio (consapevole o inconsapevole) di mantenere un certo potere personale, non possiamo però non considerare anche  altri fattori quali la cultura e  le priorità aziendali (qual è il gap tra la focalizzazione sullo sviluppo di medio periodo rispetto al “pagare” il raggiungimento di risultati operativi a breve?).

Per alcuni può esservi altresì una difficoltà a capire e gestire l’apprendimento degli adulti (e quindi a farsi concretamente mentore), per altri il freno potrebbe essere la semplice “fatica” che comporta il farsi carico dello sviluppo di qualcun’altro (a iniziare da come vengono svolti certi colloqui di feed-back), per altri ancora l’ostacolo è nella disponibilità di mettersi in gioco rischiando la propria reputazione.

Ma cosa deve fare in sostanza un manager per essere riconosciuto quale mentore o coach?

Innanzitutto, nel momento in cui veste questi abiti deve spogliarsi del suo ruolo abituale, concentrandosi sulle persone (persone e non collaboratori)

Non trasferisce conoscenze (come si potrebbe passare un foglio di carta da una scrivania ad un’altra), ma facilita lo sviluppo nell’individuo delle competenze necessarie per svolgere con “successo” un determinato ruolo, mansione, professione.

C’è tutto l’interesse a promuovere lo sviluppo di competenze trasferendo i “saper fare” e i “saper essere”.

Se ogni risorsa affidata, e quindi  il team, cresce in termini di risultati sia qualitativi, che quantitativi, allora si può dire che chi guida il gruppo ha fatto un buon lavoro, configurandone i meriti sia in termini di reputazione e percezione che il mondo aziendale esterno ha di lui, che in termini di orgoglio personale e, non ultimo, in termini economici attribuiti al team e al manager stesso.

Occorre avere la forza di andare oltre l’individualismo di cui sono permeate la maggior parte delle imprese.

C’è chi per ottenere di più dai propri collaboratori, tende a spremerli: questi faranno il loro dovere, per lo stipendio o per la “paura di punizioni”,

C’è chi sceglie di  dedicare buona parte delle proprie risorse (tempo ed energia) a capire il prossimo (il collaboratore), esplorandone le “chiavi” empatiche per potersi relazionare in modo forte al fine di trasferirgli metodi e conoscenze, per motivarlo adeguatamente.

Così facendo tra manager e team si generano competenze nuove, umane e distintive favorendo, in primis, la conoscenza reciproca  tra le persone.

Chi comprende che compito primario di chi dirige è quello di trasmettere tutta la competenza dei “saper fare” che a sua volta ha appreso negli anni, potrà, insieme al suo team, raggiungere i difficili risultati che l’azienda chiede.

Troverà anche il tempo per fare quello per cui è pagato: elaborare nuove strategie di business e/o ottimizzare i processi, consentendo alla propria società di affrontare il mercato da leader.

Concludendo, se si è disposti a spogliarsi ed a cedere una parte di se stessi agli altri (i componenti del team), si potranno avere solo benefici.

Hanno contribuito: Maria Carla Lombardi Management Consultant at E-consultant;  Lucio Macchia Telecom Italia manager; Francesco Stanchi payroll specialist at CNA Servizi Bologna; C. Contessa Marketing at Lavoro.Doc S.p.a; Alessandro Solustri Project Office & Business Process Improvement Supervisor at Toyota Financial Services; Lorenzo Lume Sales Director at Iperclub S.p.A.; Francesco De Biase Founder & CEO at Intesia Communication,  – Telecommunications Industry; Vito Massimano Formazione, sviluppo manageriale e selezione; Patrizia Spaggiari Consulente HR e formazione outdoor; Luca Masellis Head Recruting and development  at API Anonima Petroli Italiana spa; Luciano Cassese Presidente at Associazione Formatori Professionisti; Riccardo Borgna Area Manager Finrete; Fabrizio Balzer senior partner at MLC-marketing lines consulting; Danilo Spina Country Sales Manager at GKI.

Chi non sa trasmettere “ciò che sa” è un manager competente? Prima parte

Prendendo spunto dalla frase di George Bernard Shaw “Quelli che possono fanno, quelli che non possono formano”, ho posto questo quesito Un manager che non sa trasmettere ciò che sa, o che non trova il tempo per farlo, e che non ha il coraggio di definire se stesso in rapporto all’utilità verso gli altri, può comunque essere definito un manager competente?”

Alla riflessione sull’ammissibilità di un distacco tra il saper fare e il saper trasferire i propri saper fare, ho raccolto 14 contributi di manager, formatori ed esperti di gestione delle risorse umane.

Vi è da dire che molti hanno associato la parola “formare”, essendo peraltro il quesito posto dal sottoscritto, all’attività di formatore, sollecitando pertanto interessanti distinguo.

Ritornando a G.B. Shaw, e citando, tanto per non farci mancare nulla, Lao Tze con la sua “Chi sa fa. Chi non sa insegna.”, possiamo dire che, se prese alla lettera, queste affermazioni ci porterebbero ad un inevitabile interrogativo, soprattutto nel mondo del lavoro, “ma cosa può insegnare uno che non sa fare”?

Riflettendo anche in funzione di aziende sempre più orientate ai risultati economici di breve termine, e quindi focalizzate a misurare e quantificare le abilità di un manager soprattutto in merito ai risultati immediati di business, che significato e che esplicitazione possiamo dare al “saper definire se stessi in rapporto all’utilità verso gli altri”.

Per alcuni essere bravi manager è una cosa, essere bravi formatori è altra cosa, in quanto si può insegnare tantissimo, senza spiegare assolutamente nulla, semplicemente facendo bene il proprio  mestiere e, nel momento in cui, con costanza di risultati, si riescono a portare a termine gli obiettivi che l’azienda  ha prefissato, questo manager ha tutto il diritto di essere definito competente, anche in mancanza di capacità dialettiche.

Per altri i manager, se vestissero i panni del formatore, sarebbero manager migliori in quanto
formare significa fermarsi, analizzare, razionalizzare, sintetizzare, comunicare.

Alcuni anni fa, circolava una barzelletta che faceva sorridere e che diceva più o meno così: ” Sai perché la lepre corre di più del cane da caccia ? Perché la lepre opera per conto proprio, mentre il cane … conto terzi”.

Forse oggi, a questa battuta, qualcuno potrebbe risentirsi o addirittura offendersi, ma è chiara la differenza che esiste tra chi “sa fare” e chi “sa fare e … lo fa”.

I manager sono dei formatori “da campo” ogni santo giorno, che lo vogliano o meno; nel bene e nel male formano i propri collaboratori, soprattutto con l’esempio, e se non sono in grado di far crescere i collaboratori, sicuramente hanno, e generano, forti lacune.

Sorgono spontanei alcuni interrogativi.

Se il risultato è una conseguenza, quanto conta saper influire, guidare e indirizzare gli altri?

Fare tutto questo non significa formare, cercando di essere utile agli altri, oltre che a se stessi?

Se “tutti siamo utili e nessuno indispensabile”, quanto è importante la trasmissione del sapere?

Se il sapere non fosse stato condiviso, l’umanità sarebbe avanzata?

In altre parole, se trasmettere agli altri le nostre conoscenze è il miglior modo per mettere a frutto la nostra cultura e la nostra persona, anche in azienda educare, nel significato pieno del termine, è un dovere che tocca tutti perché è l’unico modo per dare senso e continuità alla propria esperienza, sia di apprendimento, che lavorativa.

Come molti di coloro che hanno contribuito a questa riflessione ho avuto degli ottimi maestri che sapevano fare bene il loro mestiere di manager e che avevano anche l’intenzione, e la lungimiranza, di trasmettere ciò che sapevano.

Se avessi posto ad alcuni di loro questa domanda, probabilmente, ricordandone la filosofia, non avrebbero giudicato e mi avrebbero risposto ponendomi degli interrogativi “il fatto che altri non insegnino non significa che non siano competenti, semplicemente non sono utili, alla lunga, neanche a se stessi; bisognerebbe capire perché fanno così. Hanno il desiderio di sentirsi indispensabili o pensano che siano gli altri che debbano sforzarsi nell’apprendere osservandoli, o molto più semplicemente, credono che sia l’esempio quello che conti, e che rispondere a domande, colmando le lacune di chi chiede, sia più che sufficiente?”.

Hanno contribuito: Maria Carla Lombardi Management Consultant at E-consultant;  Lucio Macchia Telecom Italia manager; Francesco Stanchi payroll specialist at CNA Servizi Bologna; C. Contessa Marketing at Lavoro.Doc S.p.a; Alessandro Solustri Project Office & Business Process Improvement Supervisor at Toyota Financial Services; Lorenzo Lume Sales Director at Iperclub S.p.A.; Francesco De Biase Founder & CEO at Intesia Communication,  – Telecommunications Industry; Vito Massimano Formazione, sviluppo manageriale e selezione; Patrizia Spaggiari Consulente HR e formazione outdoor; Luca Masellis Head Recruting and development  at API Anonima Petroli Italiana spa; Luciano Cassese Presidente at Associazione Formatori Professionisti; Riccardo Borgna Area Manager Finrete; Fabrizio Balzer senior partner at MLC-marketing lines consulting; Danilo Spina Country Sales Manager at GKI.