Siamo noi gli artefici del nostro destino

Ognuno di noi, in pratica, si è fatto da sé; la persona che siamo oggi può essere frutto delle nostre esperienze infantili, ma la persona che diventeremo, o che potremmo essere, è esclusivamente sotto il nostro controllo.

Non è il nostro pensiero del passato, o del futuro, a determinare il nostro destino; ciò che siamo e ciò che saremo è determinato dai pensieri che faremo in ogni istante.

Avere un pensiero profondo ottimista, piuttosto che positivo, o semplicemente possibilista, ci permette di pensare e parlare delle cose che desideriamo, evitando alla nostra mente di riempirsi di ansie per cose che non vogliamo, temiamo e dubitiamo.

Le persone positive e brillanti visualizzano continuamente i risultati che desiderano.

Parole e pensieri positivi infondono più energia, permettono di riprendersi in fretta dalle delusioni, e forniscono il carburante per andare avanti.

La nostra mente è il patrimonio più importante e prezioso che abbiamo, per questo dobbiamo proteggerla e mantenerla pulita, invece di permettere che sia inquinata dalle influenze negative che ci circondano.

Per fare questo, può sembrare una banalità, dobbiamo avere anche la capacità di circondarci di persone giuste.

Non sempre si può scegliere, soprattutto in ambito professionale, ma quando è possibile facciamolo.

Dobbiamo avere la coscienza e la chiarezza rispetto al tipo di persone a cui vogliamo permettere di influenzare il nostro pensiero e i nostri sentimenti attraverso lo scambio di discorsi ed opinioni.

Un’Associazione Manageriale ha evidenziato i risultati di uno studio condotto su un gruppo di manager che erano stati divisi in due gruppi: coloro che erano in fase di stallo e coloro che stavano avanzando ritmicamente nella loro carriera.

La differenza non era dovuta all’istruzione, all’esperienza, al background, alla rete di contatti o all’intelligenza, essa era dovuta ad un fattore identificato in “prendere l’iniziativa”.

I manager più brillanti si muovevano continuamente fuori dalla propria zona di comfort prendendo iniziative per provare cose nuove in ambiti nuovi, gli altri erano sempre in attesa che arrivasse qualcuno a dire loro cosa fare.

Invece di aspettare che le cose succedano, abituiamoci a farle succedere, invece di aspettare che migliorino dobbiamo prendere l’iniziativa così da modificare e migliorare la situazione in cui ci troviamo.

Non è facile modificare completamente il proprio modo di pensare, tuttavia diventa possibile nel momento in cui accettiamo la piena responsabilità ed assumiamo il controllo dell’evoluzione e dello sviluppo del nostro carattere e della nostra personalità.

Non si tratta di ciò che leggiamo o impariamo, ma di ciò che facciamo e di come lo facciamo.

Se avrai vinto pienamente te stesso, facilmente soggiogherai tutto il resto. Trionfare di se medesimi è vittoria perfetta” (Tommaso da Kempis  1380-1471)

La responsabilità nella delega

Pur essendo un processo di cessione di responsabilità, la delega non ci scarica mai dalle “nostre responsabilità”.

Questo deve esserci ben chiaro se vogliamo delegare positivamente.

Cedere la responsabilità significa far si che il collaboratore debba rispondere a noi dei risultati ottenuti, quindi non dovremmo mai delegare alla leggera, o assumere atteggiamenti del tipo “se ti va” o “quando hai un momento libero”.

Dovremmo piuttosto convenire con lui gli obiettivi, insistendo affinché egli svolga, fino in fondo, il compito al meglio delle sue capacità.

Sia ben chiaro, tra noi e lui, che non vogliamo problemi, ma soluzioni, che non ci interessano le scuse, ma i risultati.

Messa giù così può sembrare un prendere o lasciare, ma se guardiamo alla sostanza, una vera delega, per funzionare, deve essere così, in quanto ci deve aiutare ad assolvere alle nostre responsabilità, non per evitarle.

Esattamente come noi ci aspettiamo risposte o soluzioni dai nostri collaboratori, anche il nostro committente (capo o cliente che sia) si aspetta la stessa cosa da noi, e non possiamo accampare scuse se chi abbiamo delegato ha fatto un lavoro approssimativo; i responsabili siamo noi, punto e basta.

La responsabilità che si associa alla delega è la stessa che si associa alla gestione ed è un peso non indifferente, che non possiamo scaricare o riprendere in spalla a piacimento.

Nel delegare dovremo anche accertarci che il delegato abbia l’autorità e le altre risorse necessarie per portare a termine il compito assegnato, ma, ricordiamoci, la delega non deve mai essere un gioco di potere, né l’istituzione di un feudo da parte del nostro collaboratore.

Teniamo sempre d’occhio ciò che conta, i risultati.

Occorre un giusto atteggiamento, ricordandoci che chi vuol essere un buon manager e vuole avere un rendimento elevato, più che occuparsi del fare, deve occuparsi del far fare.

Pur occupandoci dell’organizzazione e dell’amministrazione aziendale siamo interessati dagli obiettivi e non dalle strutture, accettando di correre dei rischi tramite la delega, diversamente dai manager burocratici e passacarte.

Una delega responsabile richiede che noi non si sia autocratici o assetati di potere, altrimenti vedremo sempre i nostri collaboratori come dei concorrenti, o peggio ancora, come dei vassalli, e sarà difficile orientare ed orientarsi al risultato.

Occorre saper far buon uso del talento di coloro che lavorano con noi, trattandoli bene ed aiutandoli a crescere, dirigendo i nostri sforzi per portarli a risultati di livello superiore.

L’unico modo per sviluppare delle sane capacità delegatorie è quello di cominciare a delegare, ricordandoci che le vecchie abitudini sono dure a morire e per svilupparne di nuove ci vuole sempre un certo impegno.

Abbiamo detto che delegare non è abdicare, per cui saper controllare il delegato è uno dei principali fattori critici di successo.

Non rinunciare alle proprie responsabilità esercitando un controllo che non ci sostituisca agli altri e che non li assilli, lasciandoli autonomi nello svolgere il proprio lavoro e nel prendere decisioni autonome, è il percorso da imparare per chiunque voglia essere un buon manager.

Imparare a delegare significa innanzitutto imparare a ricevere un feed back dai propri collaboratori, fissando gli standard cui devono attenersi, guidando e correggendo le loro azioni per prevenire errori irreparabili.

Delegare o non delegare?

Ognuno di noi deve scegliere la propria strada.

Fiducia e sicurezza nella propria “creatività”

Non esiste un modello unico di manager creativo, ma è possibile riconoscerne le attitudini e le doti specifiche che lo differenziano da quello scarsamente o per nulla creativo.

Per quanto nessun manager possa sperare di eccellere in tutte le caratteristiche creative, merita la qualifica di creativo colui che possiede, in misura diversa, ma sufficiente, una serie di doti ed attitudini che, facendo leva su quelle di maggior qualità, lo aiutino a compensare quelle meno evidenti, o comunque meno utilizzate.

Si deve peraltro tener presente che la creatività dipende strettamente dal clima (o cultura) dell’azienda in cui si opera: in un clima sfavorevole le capacità creative deperiscono.

Tornando alle doti, diciamo innanzitutto che, per essere creativo, un manager deve avere una buona immagine di sé (sicurezza e fiducia) in quanto, iniziative e piani, sono sempre condizionati dall’idea che abbiamo delle nostre possibilità.

Chi è convinto di essere al limite delle proprie possibilità cesserà di impegnarsi oltre; viceversa continuerà ad impegnarsi chi riterrà di poter ancora ottenere buoni risultati e raggiungere nuovi traguardi.

Chi è sicuro e fiducioso di sé non evita le esperienze nuove, anzi, le affronta con entusiasmo, non imponendosi la preoccupazione della salvaguardia dell’immagine con cui è “conosciuto”, in quanto è conscio delle proprie possibilità e non teme le verifiche, sicuro di risolvere i problemi e le situazioni difficili, avendo a volte dei dubbi, ma senza mai temere di non essere all’altezza.

Ogni nuovo successo aiuta ad accrescere la fiducia, e se anche qualche volta può capitare di essere sconfitti, o delusi, chi crede in sé trova sempre la forza di reagire ed andare avanti.

Diciamolo, lo spettro di un insuccesso, tale da compromettere una carriera, aleggia sempre su ogni manager, e quando si intraprende qualcosa di nuovo, quando ci si addentra in terreni inesplorati e non si sa cosa ci aspetta, il rischio è ancor più forte.

Ma rischiare si deve, perché a volte avanzare nel buio è più che mai necessario per cercare qualcosa di nuovo in uno spazio mai battuto.

Il timore dell’insuccesso impedisce a molti manager di tentare qualcosa di veramente innovativo, specialmente quando il tentativo comporta dei rischi; la prudenza è naturalmente una dote, perché aiuta a soppesare le decisioni, ma, quando è troppa, non solo non favorisce il rischio, ma porta facilmente all’inazione.

Se si riuscisse a vedere l’insuccesso come una situazione istruttiva, dalla quale possono scaturire idee nuove che alla fine si possono trasformare in successo, allora non avremo mai il vero fallimento che sta, in fondo, nel non tentare qualcosa di nuovo o nel non riprovare quando  si sbaglia; un tentativo sbagliato ci insegna sempre qualcosa, mentre una rinuncia significa la sicura perdita di quel che avrebbe potuto essere.

Abbiamo parlato di insuccesso, finiamo parlando di successo.

La paura del successo è un sentimento ben noto, che impedisce a molti manager di fare carriera, come se fossero attanagliati da un perenne senso di colpa.

Ma chi non ha, e non deve avere paura del successo?

Sicuramente chi crede a ciò che fa e non scende a compromessi per amore di carriera e guadagno.

Non porsi mai obiettivi inferiori alle proprie possibilità, sentirsi pienamente realizzati nel proprio lavoro, saper fare autocritica senza essere ipercritici, sapersi leggere onestamente conoscendo i propri punti di forza e le proprie aree di miglioramento, rispettare se stessi e gli altri, agire per rendersi utile alla propria azienda e alla società più in generale, sono le chiavi per un successo sano e duraturo.

Far conto e dar fondo alle proprie risorse, ma, soprattutto, non tradire mai se stessi.

Le fonti dell’ aggressività

Un raffinato scrittore, Carlo Castellaneta, ci conduce nel cuore dell’aggressività, di cui evidenzia tutta la carica dirompente.

Egli scrive come l’aggressività si possa già riconoscere dai tratti del volto, dalla durezza della mascella o dalla sporgenza esasperata degli zigomi: “Quasi tradissero un moto istintivo, una intenzione inconfessata, una vocazione inconsapevole da parte di chi li possiede a imporsi, a sopraffare gli altri.

Ma esiste anche un’altra forma di aggressività, più nascosta, e per questo più subdola. Essa è fatta di dissimulata avversione, di piccole resistenze, di minime diffamazioni, a volte inconsce, che però lasciano un segno indelebile in chi le riceve.

Si aggredisce per affermarsi, per imporsi, ma anche semplicemente per esistere, per non essere travolti, per dar voce al proprio fiato.

Così infinite volte si può essere aggressivi per puro riflesso, condizionato dalle affermazioni, sospinti dall’antagonismo di chi ci sta attorno, premendo per emergere, agitandoci frenetici in questo mare tempestoso che è la società, dove chi non sa nuotare finisce per andare a fondo.

Tutti i filosofi, dagli antichi ai moderni, hanno affrontato il tema dell’aggressività.

Eccone alcuni estratti, non accompagnati da citazioni ma che, grazie alla loro metrica ed alla costruzione della frase, ci accompagnano in un tempo a volte più vicino, a volte più lontano, da noi.

Mai come oggi l’uomo vive la sua esistenza in modo talmente frenetico, che per non scomparire è quasi costretto ad aggredire l’ambiente che lo circonda; i ritmi di lavoro cui siamo sottoposti, la competizione, la corsa alle informazioni, sempre più corpose e frenetiche, inducono all’aggressività.

L’uomo primitivo viveva di un’aggressività istintuale, quasi una seconda pelle, a livello di meccanismo difensivo nei confronti di un ambiente ostile, dove regnava la legge del più forte;  essa, tuttavia, caratterizza anche l’uomo dei nostri giorni, pur con espressioni, forme e contesti mutati.
Se è vero, infatti, che la civiltà ha prodotto conquiste perenni, è altrettanto vero che taluni aspetti della natura umana sono sopravvissuti ai secoli e ai millenni.

L’aggressività che contraddistingue l’uomo odierno è legata alla concezione che ha del tempo; siamo sempre in affanno, il tempo sembra non bastare mai, tant’è che il filosofo Michel Serras c’invita a lasciare l’orologio per riprenderci il tempo.

Accanto all’ansia prodotta dai nostri ritmi frenetici, esiste anche la frustrazione di un tempo che si sbriciola, sfuggendoci continuamente di mano.

A questa forma di tempo, l’uomo reagisce o con la depressione, perché non è in grado di reggerlo, o con la smania di agire, con una cinica sete di potere, di successo ad ogni costo.

Per incanalare in un tempo così sfuggente affermazioni lavorative o gratificazioni sociali, l’uomo del nostro tempo ha sviluppato un’aggressività inconscia nei confronti dell’ambiente e soprattutto degli altri, visti come potenziali nemici, agguerriti concorrenti nella scala del successo.

E’ opinione diffusa che solo uno “spirito guerriero” possa imporsi in un mondo sempre più competitivo, dove chi resta indietro è destinato all’estinzione.

Eppure, questi “spiriti guerrieri”, questi frenetici abitatori del successo e della visibilità sociale – dimentichi dell’antico valore greco della contemplazione – sono anche tra i più assidui frequentatori delle farmacie, alla ricerca dell’ansiolitico più efficace: questa, per alcuni, è la risposta dell’anima ad una vita innaturale.

Non ultime, non sono rare le forme di aggressività legate all’eccessivo amore che nutriamo verso noi stessi e ai nostri desideri che vorremmo sempre appagati.

Il narcisismo nasconde insidie esistenziali per nulla trascurabili, in quanto il narcisista finalizza la propria vita all’iniziativa gratificante dell’altro, che gli è necessario come l’aria che respira per il soddisfacimento immediato dei propri desideri, pena reazioni rabbiose e aggressive.

Chi, invece, ha un atteggiamento donativo verso gli altri, potrà anche sentire momenti di stanchezza, di nervosismo, ma riuscirà, comunque, ad arginare in modo soddisfacente la propria aggressività, proprio perché si sente veramente appagato.

Chi, d’altronde, può sentirsi più appagato moralmente di colui che ha reso felice un altro?