Alla fine degli anni 60 il modello lavorativo di riferimento più diffuso, vedeva principalmente due figure: il “padrone e il lavoratore”, poi con l’affermazione del sindacato, il divario tra “padrone e lavoratore” è andato scemando a favore del formarsi, o riformarsi, di ruoli aziendali quali il manager, deputato a controllare le relazioni, all’interno dell’azienda, per conto della proprietà.
In questo cammino si è lavorato molto all’interno dell’organizzazione lavorativa, affinché il manager potesse esprimere una professionalità competente, fatta da una buona formazione tecnica e da una forte consapevolezza personale, evitando il più possibile pericolose forme di pseudo competenza.
Di conseguenza l’avvento di questa figura, alla quale la proprietà riconosceva deleghe più o meno ampie nella gestione dell’organizzazione lavorativa, e indirizzata a uno stile gestionale più partecipativo e coinvolgente, venne percepita dai lavoratori come una nuova possibilità.
La trasformazione cominciò dalla motivazione per la quale il lavoro non era più visto solo in funzione del salario, ma anche quale mezzo utile a migliorare la propria condizione, sia professionale, che sociale.
Chi ambiva a diventare manager, e percorrere la scala del successo, faceva di tutto per crearsi una certa professionalità al fine di uscire dalla condizione di subalterno.
Questa corsa verso i piani nobili mitizzò talmente la figura del Manager al punto di perdere il contatto con l’oggettività del ruolo, delle responsabilità e della funzionalità concreta in azienda,
Oggi il manager è quotidianamente alle prese con se stesso, con la “realtà” di situazioni e contesti e la lettura soggettiva degli stessi, che il più delle volte porta a scontri interiori e con l’esterno, per niente facili da sostenere, soprattutto se non si condividono con gli altri criteri che possano aiutare e trovare punti di condivisione tra le diverse soggettività a confronto.
La consapevolezza di se stessi e la crescita professionale attraverso la formazione tecnica e psicologica aiutano il Manager a affrontare più abilmente lo scontro di cui si è accennato.
Oggi si parla, in modo sempre più consapevole, di questioni quali:
a) Percezione del ruolo, ovvero l’essere manager in una specifica organizzazione;
b) Funzione del ruolo stesso, ovvero lo scopo e la responsabilità, e di conseguenza il confronto tra le competenze necessarie e effettive;
c) Il confine tra la persona e il ruolo professionale.
A questi tre punti occorre aggiungere il maggiore, o minore, equilibrio di ogni singolo individuo che deriva dalla propria sfera emotiva, dalle necessità, dalle idee e dai valori e, non ultimi, dai propri interessi.
La gestione di questi disequilibri può generare conflitti (grandi o piccoli) nella sfera delle singole persone chiamate quotidianamente al confronto con se stesse e con gli altri.
Come ci si percepisce, come si crede di essere percepiti, e come, infine, si è percepiti effettivamente sono come un ago della bilancia, un termometro che, se non trova equilibrio, tra ciò che pensiamo di essere, e come gli altri ci vivono, può generare una falsata percezione delle proprie responsabilità: quelle che pensiamo di avere, quelle che pensiamo che gli altri ci riconoscano e quelle che effettivamente ci vengono riconosciute.
Non dimentichiamo che gli altri sono tanti (il capo, il collega, il cliente, il fornitore, il collaboratore, ecc.) e tutti hanno un’idea propria della responsabilità che il manager debba prendersi.
Per il manager diviene perciò importante mantenere alta l’attenzione sul lavoro e sempre vigile la consapevolezza di se stesso al fine di non perdere di vista i punti fondamentali di ogni relazione umana, intervenendo laddove sia necessario risanare una relazione professionale, e non solo.