Il telefono allunga la vita?

Ogni nuovo decennio porta con sé complicazioni ed opportunità, che rendono necessario cambiare il modo in cui curiamo, gestiamo e sviluppiamo i nostri affari.

Il primo decennio degli anni 2000 non ha fatto eccezione a questa regola.

La maggior parte delle persone, e delle aziende, è assillata, da sempre, da problemi quali l’inflazione e l’aumento del costo della vita, dalla paura di non essere più “in linea” con il mercato e quindi di diventare povera o fallire.

Questi assilli hanno creato un’atmosfera di lavoro accanita, convulsa e competitiva.

Le aziende sono sempre più preoccupate di presidiare mercato e clienti, cercando di “blindare” i propri, e conquistarne di nuovi.

Invitano, a volte esasperano, la propria forza vendita, e le proprie risorse di contatto, nello spendersi con i clienti, ed utilizzano ogni possibilità offerta loro dalle moderne tecnologie per potersi far conoscere.

C’è chi lo fa in modo mirato e con “logica”, c’è chi lo fa perché lo fanno gli altri, c’è chi lo fa perché qualcosa bisogna pur fare, c’è chi non lo fa.

Una volta era il direct marketing ad intasare le cassette della posta, oggi sono le mail a riempire le caselle di posta elettronica con ogni tipo di promozione.

La similitudine tra le due forme di “contatto” sta nel fatto che entrambe lasciano al destinatario, nel bene e nel male, la decisione se dare seguito, o meno, alla “richiesta” non fornendo altro feed back, che questo.

Mandare 5.000 mail con indirizzo nascosto (e quindi a gruppi di centinaia per ogni click) è relativamente facile, necessita di poco tempo, ed i costi sono  ridotti al minimo, ma qual è il loro ritorno?

Piaccia o no occorre rivalutare l’importanza dell’utilizzo del telefono per tornare ad un “contatto” più diretto, personale ed “umano”, con la possibilità di avere feed back immediati: occorre in altre parole tornare al piacere di una chiacchierata d’affari anche con chi, sino a quel momento, non ci conosce, per avere, possibilmente, l’opportunità di conoscerlo e farci conoscere.

Qualcuno in questo momento penserà ai costi (in pochi), qualcuno ai filtri da superare per arrivare alla persona che ci interessa (in molti), qualcuno al blocco psicologico dell’utilizzo dello strumento telefonico per chiamate a freddo (in parecchi), qualcuno al tempo – che non basta mai – per dar vita a un piano di telemarketing personale proficuo (quasi tutti).

Piuttosto che concentrarci sui limiti, puntiamo dritti alle opportunità che, con un po’ di coraggio, potremmo crearci, prendendo in mano il telefono.

Possiamo prendere contatto con chiunque, dovunque lo desideriamo e farlo istantaneamente (o quasi), possiamo sentire direttamente la persona e gli eventuali “si o no” che questa potrebbe esprimere ad una nostra qualsiasi proposta aiutandoci anche a correggere il tiro (e perfezionarci) per le telefonate successive, e non ultima possiamo migliorare la fluidità delle nostre argomentazioni e la nostra capacità di ascolto.

Qualsiasi sia il settore in cui si opera, se si vuol dar vita ad una moltiplicazione dei propri contatti, sarebbe bene tornare a prendere in considerazione il caro e vecchio telefono, e se proprio non abbiamo la forza o la capacità di telefonare a freddo, di avere a fianco qualcuno che lo faccia per noi (internamente o in outsourcing).

Occorre superare la paura di fare “telemarketing o teleselling”; la paura è un’emozione inutile: conosco una miriade di “venditori” che per la paura di essere invasivi non fanno neanche una telefonata di recall ad un cliente con il quale si sono intrattenuti per ore su un’offerta ed al quale hanno fatto uno o più preventivi . . . figuriamoci se questi faranno mai una telefonata a freddo.

La paura dell’insuccesso è generatrice di insuccessi.

Se possiamo fare a meno di telefonare, non telefoniamo, ma se abbiamo bisogno di nuovi contatti mirati e se vogliamo farlo velocemente, allora superiamo i nostri limiti e cominciamo a chiamare, e se proprio non ci riesce, troviamo qualcuno che lo faccia per noi.

Management: le influenze dell’infanzia e dell’adolescenza

La prima caratteristica del manager è di avere con la realtà un buon rapporto, tale che gli permetta sempre di avere dentro di sé margini per controllarla e non esserne mai travolto.

Fare le esperienze giuste al momento giusto, fare cioè le esperienze che man mano si è in grado di affrontare e sopportare, ci permette di crescere emotivamente, facendo fronte, e reggendo, situazioni via via più difficili.

Spesso le persone, così come ce le troviamo da adulte, sono il frutto di come qualcuno, tanti anni prima, aveva deciso dovessero essere; una madre protettiva o un padre quale modello morale e comportamentale, ovvero entrambi, piuttosto che il contrario di quanto appena descritto.

Da bambini “costruiamo” il nostro modo di essere caratteristico, a seconda di chi ci sta attorno e dal valore che gli altri ci attribuiscono: leader o gregario, onesto o inaffidabile, capro espiatorio o furbo.

Questo influenzerà nel bene e nel male la crescita di ognuno di noi, e se i ruoli che ci erano stati “affibbiati” sin da bimbi non sono coerenti con ciò che “siamo dentro”, questo ci creerà scompensi con la “nostra natura e realtà”.

La sicurezza interiore, il controllo emotivo, la capacità di sopportare le frustrazioni e andare avanti, la possibilità di esprimere la propria vitalità senza che il mondo ci sfugga di mano, sono il frutto di una buona infanzia.

Un’altra caratteristica importante del manager è la capacità organizzativa, anch’essa sviluppata sin dall’infanzia, sia come primaria capacità di controllo e gestione delle funzioni fisiologiche e delle prestazioni fisiche, sia, più avanti, nel modo di porsi in relazione con i coetanei.

Osservando i bambini mentre giocano appare già evidente chi ha l’attitudine ad organizzare se stesso e gli altri, e questo può dipendere sia dalla costituzione individuale, che dall’educazione ricevuta.

Con l’adolescenza entriamo nel periodo della verifica e della contestazione; in questi anni è importante il modo di vedersi, di riconoscersi in mezzo agli altri e di rinsaldarsi progressivamente in un ruolo significativo.

La frustrazione delle aspirazioni e le batoste non risolte in questi anni istillano il dubbio di potersi sempre trovare in situazioni in cui non si è in grado di farcela, e di valere, di conseguenza, poco o niente; d’altra parte un ruolo sempre vincente e collaudato nell’adolescenza può esporre, in età adulta, ad irreali presunzioni di potere, e a frustrazioni difficilmente accettabili e sanabili.

Il ruolo dei genitori, nel modulare l’impatto che sconfitte e vittorie possono avere sull’organismo in crescita, ha una fondamentale importanza nella costruzione dell’individuo che sappia come utilizzare le proprie capacità fisiche, mentali, relazionali e la propria vitalità.

La vitalità è una dote evidente in adolescenza, che tende progressivamente a spegnersi con gli anni.

Entrare nel ruolo di chi sa comunicare vitalità ed entusiasmo per promuovere la collaborazione e l’iniziativa di chi non ce l’ha, porta come conseguenza evidenti vantaggi nell’attività manageriale.

Saper far lavorare è l’evoluzione adulta del saper animare i propri amici; spesso però nell’affrontare il ruolo di adulto, e per un’errata interpretazione di cosa significa fare l’adulto, in molti rinunciano ad esprimere la loro vitalità, castrando una loro possibilità.

Da adulti dovremmo essere in grado di applicare, senza più ansie, né dubbi, ciò che abbiamo imparato durante la crescita; è l’età in cui espandiamo le nostre capacità di gestione dall’ambito personale a quello familiare e a quello lavorativo.

L’aspirazione a crescere economicamente e socialmente, così come l’acquisire potere personale, hanno bisogno di una costante capacità di rinnovarsi; in questi casi è del vero manager la particolare fiducia nella propria vitalità e nell’ottimismo.

In altre parole chi aspira a “scalate alla dirigenza”, a salire sempre più su, è un po’ un eterno adolescente ancora in cerca della sua maturità; anche se è riuscito ad organizzare bene se stesso nel presente, rincorre un se stesso migliore proiettato nel futuro.

Queste persone che si sentono sempre in grado di essere migliori domani possono avere una bellissima immagine di sé; si sentono infatti vincenti e realizzate, ma mai completamente, per cui possono aspirare a realizzarsi ancora meglio.

Sul perché la gente compra

Quando nel settembre 2007 pubblicammo la prima newsletter di PR3 “perché la gente compra” fu il primo titolo; di recente ho riproposto il quesito su più tavoli e a manager di diversi settori con una domanda molto simile “ma secondo lei, perché i suoi clienti comprano o dovrebbero comprare da lei?”: ecco una breve carrellata di riflessioni.

Laddove la gente compra per necessità, per molti vi è già la risposta alla domanda, con la conseguenza che queste aziende hanno sia il management, che i venditori, molto limitati, poco orientati commercialmente, che non si interrogano “su questi perché” ma che si  concentrano più su prodotti e prezzi, visti come i veri, se non gli unici, elementi distintivi per attrarre la clientela (vi è una catena di superstore che recita, come slogan, “la nostra forza è il prezzo” e vi sono pubblicità che dicono “se trovate a meno vi rimborsiamo la differenza”).

Nei casi più complessi, in cui la concorrenza non è solo sugli elementi appena visti, ma è fatta di venditori in cerca di nuovi clienti in un mercato sempre più asfittico, e dove la necessità è ribaltata su chi vende, è fondamentale che il rapporto di partnership fra cliente e fornitore sia focalizzato su elementi che, grazie ad una efficace personalizzazione, facciano leva su un prodotto che rispetti i requisiti stabiliti dal cliente in termini di qualità, prezzo e performance, unitamente a un’azienda che garantisca il rispetto di tutti i termini concordati e che sia sempre pronta ad investire in innovazione; non ultimo un venditore che sia in grado di dialogare sia con persone e aziende.

Tutto questo sia per chi vorrebbe “togliere” un cliente al suo concorrente, sia per chi non vorrebbe farselo togliere.

La chiave del successo, per i più, è sempre e comunque capire chi si ha “di fronte” e cosa vuole, intendendo però quest’ultimo come una persona che ha anche l’esigenza di “vendere” il risultato raggiunto all’interno della propria azienda, ed è in questo senso che serve ascoltare e capire le sue esigenze al fine di presentare soluzioni che diano valore” alla nostra, e di conseguenza alla sua, proposta.

Se quanto appena detto trova risposta positiva, ecco che anche il prezzo, che è, lo si voglia o no, fondamentale in ogni trattativa, e per questo deve essere allineato alle aspettative di mercato, riesce ad essere gestito in termini profittevoli sia in termini di canali, che di concorrenza,

Bisogna pertanto indirizzare il proprio prodotto/servizio verso il cliente che ne ha bisogno in modo onesto perché per quello che non sappiamo fare, è inutile arrampicarsi sugli specchi; piuttosto dichiariamo con tranquillità la nostra “incompetenza” e indirizziamo il cliente a chi la può al meglio soddisfare, affinché non abbia dubbi che per quello che non è alla nostra portata ci facciamo carico di cercare con lui una soluzione al problema, ma che per quello che sappiamo fare ci siamo noi, grazie alla nostra qualità ed unicità (anche questo è un modo, per quanto non la si voglia fare facile, per gestire il prezzo).

Occorre poi, e non solo a livello accademico, distinguere  tra prodotti e servizi (due mondi molto diversi – nei primi c’è una fisicità, negli altri una “vision”) per cercare di capire cosa la gente pensa di aver comprato o di comprare.

Ad esempio quando comprano un’auto, acquistano uno status symbol o un mezzo di trasporto o produzione, e quando prenotano una camera in hotel, comprano un week-end o due giorni di divertimento, e quando acquistano un corso di formazione, comprano solo apprendimento o anche motivazione dei partecipanti?

In sintesi se chi compra, aldilà della pura necessità vista all’inizio, cerca valore, il venditore dovrebbe saper trasmettere il valore di quanto vende (giuste argomentazioni), uscendo dal solo parametro del prezzo, e spostando l’attenzione sulla convenienza.

Riassumendo, se chi vende riesce a far percepire il valore a chi compra, anche chi compra vorrà far si che quel venditore venda proprio a lui.

Per questo è necessario porsi sempre dalla parte di chi vuol comprare, non arroccandosi sul perché vorremmo vendergli quel “qualcosa”.

Lanciare, sbagliare, saper porre la giusta attenzione

Molti ritengono di essere dei bravi manager perché corrono freneticamente di qua e di là, affrontando le emergenze, gestendo contemporaneamente più priorità e non lasciando mai cadere nulla a terra, come dei bravissimi giocolieri.

Sia chiaro però che il management non è correre come pazzi e se questa è una specialità di qualche vostro collega, lasciate che vi si dedichi come e quanto vuole.

Il segreto dei giocolieri non è nella presa, ma nel lancio; se i cerchi, le palline, o le clave sono lanciate bene, la presa è automatica, col minimo, a volte impercettibile, spostamento.

Se abbiamo 4 o 5 progetti che giostrano in aria, non ci sarà corsa affannosa che ci eviterà di vederli cadere a terra; al contrario, se come un bravo giocoliere, avremo fatto buoni lanci, non faremo alcuno sforzo.

Non preoccupiamoci della presa (quella lasciamola pure agli altri), ma delle nostre qualità di lancio: è di bravi lanciatori che le organizzazioni hanno bisogno.

Una qualità per effettuare buoni lanci è non aver paura, che non significa essere incoscienti, semplicemente vuol dire prendere decisioni, anche a rischio di sbagliare.

Molti procedono cautamente per evitare errori, e questo non è per forza un male, ma, se le decisioni sbagliate, dopo averle  rimandate continuamente, arrivano dopo un lungo lasso di tempo, allora il danno sarà irreparabile.

E’ meglio sbagliare in fretta e a basso costo, senza procurarci danni irreparabili; d’altronde sbagliare è l’unico modo per capire cosa funziona e cosa non funziona.

Infine “il saper porre la giusta attenzione” è ciò che ci permette di fare lanci sempre migliori, ed errori sempre minori.

Anziché parlare con noi stessi, con colleghi e capi, proviamo a dialogare con i clienti; certo può essere difficile porre loro le domande giuste e trovare le risposte o le soluzioni migliori, ma mai quanto il non comunicare perché, perdere il contatto, significa perdere il cliente.

Esistono migliaia di libri che parlano di customer satisfaction, ci sono persone addette a controllare le telefonate dei call center, piuttosto che dei questionari post vendita . . . le concessionarie automobilistiche, le aziende di telefonia, ecc. contattano il Cliente nei giorni successivi ad un acquisto per assicurarsi che abbia ricevuto un buon servizio.

Si possono spendere molti soldi nel customer service, secondo una o alcune delle molte tecniche che si propongono, o semplicemente assumere persone che condividano, non solo nelle parole, l’attenzione per il cliente.

L’attenzione fa molte cose: è la differenza tra un modulo facile da compilare o un complicato questionario di tre pagine, ovvero fra trattare l’estraneo come un potenziale Cliente o un potenziale ladro.

Dimostrare attenzione non è mai in funzione di un’ipotetica ricompensa, ma semplicemente perché è giusto così.

Dal contatto sociale alla relazione

Una rete sociale (in inglese social network) consiste di un qualsiasi gruppo di persone connesse tra loro da diversi legami sociali, che vanno dalla conoscenza casuale, ai rapporti di lavoro, ai vincoli familiari.

Ci si può incontrare, e quindi avere un contatto sociale, faccia a faccia, al telefono, per mail o in internet.

Per creare un’efficace relazione alla quale poter dare, e dalla quale poter trarre, il meglio, il faccia a faccia è sempre il modo più efficace.

Incontrare qualcuno al telefono non è il modo migliore, può anche funzionare, ma è solo col face to face che possiamo sentire e vedere contemporaneamente il nostro interlocutore.

Il linguaggio paraverbale, che sottolinea una comunicazione a distanza di tipo telefonico, è tanto più efficace quanto più riusciamo a ricondurlo alla “figura” della persona con cui stiamo parlando, e quando più la stessa riesce a ricondurla a noi.

Se il faccia a faccia è il modo preferibile, socializzare nei luoghi giusti è il mezzo che lo favorisce.

Spendendoci al meglio in un pranzo di lavoro o in un meeting potremo impattare piacevolmente con la nostra controparte; più gli piaceremo più cercherà di avere a che fare con noi, e più sarà facile inoltrarle successivamente una nostra telefonata e quindi organizzare un incontro.

Jeffrey Gitomer sintetizza tutto in queste affermazioni “La socializzazione funziona bene quando usi il segreto da due parole . . . fatti vedere. La socializzazione funziona al massimo quando usi il segreto da tre parole . . . fatti vedere preparato.”

Arrivare a chi decide è pertanto un nostro problema, per cui anziché lamentarci ogni volta che abbiamo difficoltà a farlo, trovando alibi a destra e a manca, cerchiamo di capire dove sbagliamo e dove, invece, anziché riuscire ad ottenere un “si”, ci dobbiamo accontentare di un bel “no”.

L’appuntamento, come abbiamo già sottolineato, è il punto centrale di ogni transazione, da quelle sindacali a quelle politiche, da quelle di vendita a quelle d’amore; non è possibile giungere a nessun accordo senza un incontro faccia a faccia (in alcuni casi è possibile anche al telefono) con la controparte che ha potere decisionale in merito.

Se al termine di un incontro ci sentiamo dire un generico “ottimo, ne parlerò a . . .” rendiamoci conto che questo più che un appuntamento è una visita; in concreto un appuntamento è quando incontriamo qualcuno che abbia potere decisionale e lo voglia esercitare perché realmente interessato a quanto gli abbiamo presentato.

Parlare con chi non ha potere decisionale è come suonare a sorpresa a un campanello, riuscire a varcarne la soglia, parlare qualche minuto con una segretaria distratta o il primo impiegato sacrificato per darci retta, sperando di essere ben compresi, così che le nostre istanze possano essere trasferite con il vigore che necessitano: per carità sulla legge dei grandi numeri qualcosa ne uscirà sempre, ma a che prezzo?

Se non ci danno un appuntamento, se non riusciamo ad incontrare chi prende le decisioni, se non ci richiamano, se ci rinviano continuamente la data dell’incontro, se ci danno buca, forse c’è qualcosa nel nostro modo di approcciare che non va, forse usiamo motivazioni fiacche e non convincenti.

Agli inizi degli anni 80, quando ero un giovane venditore, una “vecchia volpe” mi disse “ricordati sono solo due i motivi reali che inducono le persone a comprare . . . quando in ciò che tu dai loro vedono la possibilità di un guadagno, o di un risparmio, . . . tutto il resto è aria fritta; dai loro la soluzione che stanno cercando e venderai con facilità”.

Certo erano gli anni 80, un contesto completamente diverso da oggi, ma una cosa è certa, oggi più di allora chi sa coinvolgere, è brillante, crea interesse e desiderio, e soprattutto offre valore, ha più facilità di conoscere “persone nuove, cogliendo l’opportunità di fare affari con loro”.

Se tutto ci che abbiamo sono solo prodotti e servizi quasi nessuno ci incontrerà.

Se invece abbiamo risposte che permettono ai nostri interlocutori di guadagnare o risparmiare di più, non vi è dubbio che vorranno incontrarci, anche quelle persone che, all’apparenza. non sembrano ben disposte nei nostri confronti.

Una vecchia regola della negoziazione recita “quando gliene viene data la possibilità, la maggior parte delle persone cerca di essere accomodante”.