L’approccio corretto ad una critica costruttiva

Per quale motivo non tutti i “superiori” sono disposti a confrontarsi con i loro “collaboratori”, quando questi producono una prestazione lavorativa non soddisfacente?
Una possibile risposta potrebbe essere il fatto che non tutti se la sentono di affrontare l’ostilità reattiva che spesso viene generata a seguito di una critica, pur avendo la consapevolezza che il non intervenire potrebbe significare la prosecuzione di performance non soddisfacenti.
Solitamente la prima reazione che segue ad una critica non è, di norma, positiva; chiunque si senta messo in discussione esercita quantomeno una minima attività difensiva con le reazioni più disparate, dall’atteggiamento dell’incompreso, alla boria di chi non accetta assolutamente di venir criticato; siamo nel terreno della gestione del conflitto, dove tatto e abilità negoziali possono fare la differenza e dove occorre decidere a priori se l’obiettivo è risolvere il problema (consigliato) o attaccare la persona (sconsigliato).
Innanzitutto è importante comportarsi con correttezza; citando una frase pronunciata da Benjamin Disraeli: “E’ molto più facile essere critici, che essere corretti“, evitando, peraltro, di criticare qualcuno di fronte agli altri: a nessuno piace essere umiliato, e non è questione di dare l’esempio.
Una critica fatta alla persona che non se la merita, o semplicemente per difendere posizioni personali, ovvero dare l’impressione di non trattare tutti con lo stesso metro, ci farebbe perdere punti, e quindi scadere, agli occhi degli altri: l’unica cosa certa sarebbe la nostra sconfitta.
Allo stesso modo non dobbiamo affrontare la questione nel momento in cui siamo alterati, potremmo dire parole fuori luogo ed apparire vendicativi; se lo scopo è quello di migliorare una prestazione o risolvere una situazione negativa, sarà più produttivo entrare in azione quando siamo calmi e quindi, possibilmente, più oggettivi.
Ci sono tre momenti di base tra cui poter scegliere per esprimere una critica:
Immediatamente: l’azione è ancora fresca nella mente della controparte, ma rischiamo di essere precipitosi e di non prendere in considerazione l’impatto a lungo termine che possono avere le nostre parole.
Dopo un po’ di tempo: qui abbiamo l’opportunità di calmarci, ma rischiamo di farlo a tal punto di decidere di non dire più nulla sminuendo così l’accaduto
Subito prima dell’occasione successiva in cui l’errore o la situazione potrebbero ripetersi: ciò ci permetterebbe di trasformare la critica in un’opportunità di apprendimento; qui il rischio è che tra un momento e l’altro potrebbe passare parecchio tempo, e che la nostra controparte potrebbe avere affrontato altre situazioni in cui questo feed back avrebbe potuto essergli utile.
Se non ci è possibile riprendere la persona in privato, in quanto il contesto in cui si sviluppa la questione è pubblico, cerchiamo di dissentire con tatto contrapponendo la nostra esperienza formulata attraverso una serie di domande dubitative e se proprio dobbiamo esprimerci apertamente cerchiamo di essere critici relativamente alla performance svolta, non verso chi l’ha effettuata, descrivendo ciò che è successo, e le sue conseguenze, e non ciò che la persona ha fatto.
Potremo ottenere risultati positivi attaccando il “comportamento” delle persone, ma non avremo risultati attaccando le persone direttamente.
Chi sa sdrammatizzare e proporsi nel modo giusto ha più possibilità di ottenere l’impegno di prestazioni migliori dalla propria controparte, e se a questo aggiungiamo, alla fine, anche l’apprezzamento per l’impegno che comunque la stessa ha profuso e profonde, allora la critica potrebbe essere letta come un’esortazione dare il meglio di sé.
E’ notorio che le persone accettano più facilmente le richieste che i giudizi, perché le richieste riguardano i fatti e sono rivolte al futuro, mentre il giudizio grava sul passato e tocca la persona.
Ecco perché più saremo capaci di ricondurre il tutto all’oggettività dei fatti, piuttosto che a “questioni” personali, più le nostre osservazioni potrebbero produrre risultati efficaci nel tempo, sia per noi che per la controparte in questione.

Farsi carico della propria vita

L’inizio di un’abitudine è come un filo invisibile, ma ogni volta che ripetiamo l’azione rinforziamo quel filo, gli aggiungiamo un altro filamento, finché esso non diventa una grossa fune che ci lega definitivamente nel pensiero e nell’azione” O. S. Marden.

Ogni giornale e rivista sembra avere una storia, o un articolo, relativo a una o più persone che hanno ottenuto successi, in diversi settori e attività, come risultato di cose fatte in un certo modo; ciò che altri hanno fatto, rinforzando il filo delle loro abitudini, lo potremmo fare anche noi, basta solo imparare come, ed accettare come successo qualunque miglioramento che ci permetta, in modo deciso, di fare un passo in avanti verso il risultato a cui aspiriamo e che per noi rappresenta il nostro inequivocabile successo.

Il punto di partenza è accettare la completa responsabilità della propria vita, anziché lasciare andare i propri giorni affidandosi alla fortuna con l’idea che, in qualche modo e in qualche momento, qualcosa, prima o poi, cambierà.

Migliorare la propria vita non è così difficile, ma non è questa la cosa più importante, la parte più importante è la persona che dobbiamo diventare per ottenere ciò.

Occorre sviluppare un atteggiamento diverso (un carattere, una personalità e una serie di abitudini) rispetto alla “persona qualunque” che passa la maggior parte della propria vita assillata da preoccupazioni, dubbi e paure.

La legge dell’emozione dice “Ogni emozione su cui ci si sofferma cresce, proprio come fa il fuoco su cui si aggiunge del combustibile”.

Aristotele, il grande filosofo, nella sua Etica Nicomachea concluse “Il fine supremo dell’esistenza non è altro che il raggiungimento della felicità”.

Questa frase, ancora una volta, ci riporta alla persona che vorremmo diventare in termini di coraggio, carattere, avvedutezza e perseveranza; migliorare di giorno in giorno ci farà sentire automaticamente felici e soddisfatti di noi stessi e di ogni altra parte della nostra vita: questo è l’obiettivo che ha in assoluto più valore.

L’individuo che desidera ottenere il massimo nella vita deve apprezzare il potere della forza dell’abitudine, e deve capire che è la pratica a creare le abitudini. Deve essere rapido nel disfarsi di quelle abitudini che lo potrebbero distruggere, e affrettarsi ad adottare quelle pratiche che diventeranno le abitudini che lo aiuteranno a ottenere il successo che brama” J. P. Getty.

Confucio un tempo scrisse “Colui che desidera governare, deve imparare a obbedire”.

I dirigenti, gli imprenditori ed i manager più solidi e brillanti sono stati generalmente lavoratori irreprensibili nel corso della loro scalata al successo professionale.

Hanno acquisito e sviluppato quelle abitudini che hanno loro permesso di rendere un contributo prezioso e significativo alla propria azienda o organizzazione.

Dato che, come la maggior parte delle persone, trascorriamo oltre il 90% della nostra vita a lavorare per gli altri (superiori, colleghi o clienti), è essenziale che impariamo a renderci preziosi e quindi utili: proprio qui sta la chiave del nostro successo professionale, e non solo di quello.

Uno dei segreti è sviluppare l’abilità di pensare al lavoro che ci piacerebbe fare più di ogni altro, evitando di fare i sogni del cieco, guardandoci dentro ed esaminandoci in modo obiettivo, acquisendo l’abitudine di concentrarci su noi stessi, sui nostri speciali talenti e capacità.

Ognuno di noi nasce con l’abilità di fare una o più cose in maniera eccezionale; saremo davvero felici e avremo successo quando troveremo il tipo di lavoro che combacia perfettamente con i talenti unici che possediamo oggi, o che potremo sviluppare domani.

A chi si chiede: perché delegare?

 “Perché delegare”?

La delega non è una formalità, è la sostanza della gestione aziendale.

Il ginepraio di inutili sforzi e di impasse organizzativa che si crea quando i manager non delegano abbastanza è più che sufficiente a farne capire l’importanza.

Quando è carente è uno dei principali motivi di debolezza del management ed è riconoscibile da alcuni inequivocabili sintomi.

Possiamo identificare i sintomi di una delega insufficiente innanzitutto nei “nostri” limiti:

  • Non ci resta più tempo
  • Siamo sepolti sotto un cumulo di lavoretti
  • Ci scontriamo con i nostri collaboratori

Per trovare questi sintomi non occorre guardare lontano, basta riconoscere quel nodo allo stomaco che proviamo imbattendoci in una scadenza dopo l’altra senza avere finito il lavoro, e quel senso di non avere abbastanza tempo per il troppo, decisamente troppo, che abbiamo ancora da fare.

Un area manager che deve controllare mensilmente 6 uffici territoriali potrebbe farlo comodamente in 3 giorni, ma si organizza immancabilmente per farlo in 2!

Perché? Efficienza? Senso del contenimento dei costi? Principalmente non per questi motivi!!!

In realtà la sua preoccupazione è costantemente rivolta al lavoro che si accumulerà sulla sua scrivania durante il periodo di assenza, ed agli sforzi che dovrà fare per recuperare il tempo perduto.

L’angoscia di ogni suo rientro è così riassumibile: lettere, memorandum e domande dei suoi collaboratori e del suo diretto superiore; dovendo rincorrere questi “lavoretti” non ha tempo per dedicarsi ai più importanti compiti di gestione.

Eppure ha valide persone a cui potrebbe delegare, ma il voler avere tutto sotto controllo, non mollando niente e prendendo tutte le decisioni, non da nessun impulso, né a se stesso né agli altri.

Lo stesso accade a coloro che non chiariscono tutti i termini della delega: si dovranno accontentare delle scuse di chi dice loro “che non aveva capito o che aveva capito diversamente”.

In entrambi i casi va a finire che il “capo” deve fare gli straordinari.

Altri sintomi di una delega insufficiente si riscontrano anche nei rapporti che si instaurano con i propri dipendenti: con che frequenza ci troviamo a dire “fai così” anziché “come va”?

Se i rapporti personali con i nostri collaboratori lasciano a desiderare, avremo dei problemi a delegare: essere autocratici, diffidenti e non comunicare, sono sintomi di “problemi di delega” e, probabilmente, anche di sfiducia nel genere umano!!!

Un dirigente che non tollera il minimo errore e non comunica le informazioni (e ce ne sono più di quanto si pensi, in ogni ambito, anche non aziendale) obbliga i propri collaboratori a seguire alla lettera le procedure, controllando più di quanto sia necessario il proprio lavoro, per evitare di scontentarlo; inoltre questi si ritrovano a volte con le mani in mano in attesa di istruzioni.

Questa incapacità a delegare efficacemente produce un solo risultato: inefficienza produttiva.

Ulteriori sintomi sono riscontrabili dal comportamento dei propri dipendenti:

  • Non hanno spirito d’iniziativa
  • Non cercano l’aiuto del “capo”, o lo cercano troppo spesso
  • Sono spesso insoddisfatti del loro lavoro

Lo spirito d’iniziativa dei dipendenti è un indicatore fondamentale del successo nel delegare.

Venire a conoscenza dei problemi solo quando i collaboratori sono con l’acqua alla gola, ovvero cercano di nascondere le difficoltà che incontrano nello svolgere i loro incarichi, e assicurano che tutto va bene, anche quando non è vero, è spesso colpa di una delega insufficiente.

Riprendere in mano il lavoro non appena si ha l’impressione che il dipendente non riesca a svolgerlo, o essere troppo pronti ad accusare gli altri e rimproverare i propri collaboratori, dimenticandosi che qualsiasi funzione ha una curva di apprendimento, sono un segnale che ci dice che non si sta delegando in modo efficace.

Concludiamo come abbiamo aperto questa riflessione: una delega insufficiente è uno dei principali motivi di debolezza del management, ed è il viatico per critiche e sterili conflitti.

Ci sono parole che aiutano a vivere bene, altre che . . .

E’ nell’esperienza comune constatare che una sola parola può cambiare uno stato d’animo; molti saggi e filosofi riconoscono alle parole il potere di “creare” la realtà.
Nello zen il termine “kotodama” (potenza spirituale della parola) vuol significare che la vibrazione che scaturisce dalle parole riempie il mondo che le circonda: nel bene e nel male.
Gli incontri e gli scontri verbali, lasciano il segno tanto quanto le carezze o le spade.
Albert Einstein ha detto: “Ci sono due modi per vivere la vita. Uno è quello di pensare che i miracoli non esistono. L’altro è quello di pensare che ogni cosa è un miracolo”.

Creatività, coraggio e ottimismo

Il manager dotato sa muoversi nella società senza rinunciare alla sua originalità e il più delle volte è proprio lui che plasma e modella il suo ambiente piuttosto che esserne condizionato.Non è anticonformista per principio, è indipendente per natura e la sua ferma determinazione a perseguire i propri obiettivi è un aspetto essenziale della sua personalità, al punto da poter sembrare insensibile alle esigenze e ai sentimenti degli altri.I manager capaci di idee originali sono numerosi, ma occorre anche il coraggio di essere se stessi, di vincere le opposizioni e di tradurre le proprie idee in iniziative concrete e produttive.
Molti manager sacrificano la propria creatività per le esigenze dell’ambiente preoccupati principalmente di uscire senza danni da ogni situazione.
Questa forma di desiderio di essere accettato e approvato è in realtà una rinuncia ai propri valori, ai propri obiettivi ed alle proprie inclinazioni, e per quanto  possa essere messa loro a disposizione una vasta gamma di scelte, saranno quasi sempre incapaci di scegliere autonomamente per la mancanza di fiducia in se stessi, nelle proprie idee e convinzioni.
Sfortunatamente nelle aziende il conformismo viene quasi sempre incoraggiato e premiato e in molti casi il più alto apprezzamento va ai dirigenti che obbediscono ciecamente agli ordini di scuderia, che si mostrano sempre rispettosi, che fanno puntualmente il loro lavoro e non creano problemi.
Il risvolto della medaglia è purtroppo il dover constatare che la maggior parte di questi manager conformisti sono rigidi, stereotipati, incapaci di introspezione, opachi e privi di spirito di iniziativa.
Un manager non dovrebbe temere l’ambiguità, la precarietà, l’incertezza, la complessità, i dubbi, i misteri e le perplessità: ci ragiona, valuta, giudica e passa all’azione.
Ha il coraggio di gettarsi in nuove iniziative con tutto il suo bagaglio di entusiasmo ed energia.
Non avere il coraggio del fare per timore del giudizio degli altri è l’anticamera della mediocrità.
R.W. Emerson (saggista e filosofo dell’800) scriveva “Qualunque cosa tu intraprenda, occorre coraggio. Qualunque iniziativa tu prenda, ci sarà sempre qualcuno pronto a criticarti. Sempre sorgeranno difficoltà che ti faranno dubitare che i tuoi critici hanno ragione. Concepire un progetto e metterlo in pratica richiede vero coraggio.”
Occorre in definitiva possedere un invincibile ottimismo di fondo, essenziale per ogni iniziativa, soprattutto se innovativa; se non si è convinti di riuscire, ogni sforzo è vano.
Essere privi di ottimismo significa credere che siano più probabili le previsioni negative degli scenari positivi.
E’ l’ottimismo che ci sostiene nella lunga e faticosa marcia verso un obiettivo lontano, ed anche se talvolta è difficile giustificarlo razionalmente, esso è sempre necessario nella realizzazione di qualunque progetto.

Quando il manager piace

ll discorso di creare impressioni è forse un po’ trito e ritrito, ma non per questo meno importante.
D’altronde quanti di noi restano colpiti da una prima impressione, dalla quale traggono subito un’idea, positiva o meno, del proprio interlocutore, della situazione, della proposta ecc.
Creare una buona impressione può voler dire, semplicemente, trattare la gente per come vuole essere trattata, creando un’idea complessiva e duratura di competenza, efficienza, maturità e giusta energia.
Dobbiamo perciò essere consapevoli che possiamo essere il miglior amico, o il peggior nemico, di noi stessi e che, quotidianamente, abbiamo un’infinità di sottili occasioni per creare una buona impressione, ma ne abbiamo anche di ben più grossolane per crearne una cattiva.

Il tempo: che cosa ne facciamo?

Tutti gli uomini, di tutte le epoche, e ancor oggi, si dividono in schiavi e liberi perché chi non dispone di due terzi della sua giornata è uno schiavo, qualunque cosa sia per il resto: uomo di stato, commerciante, impiegato statale, studioso. Friederich Nietzsche.
E’ un po’ angosciante il caro Nietzsche… ma ha ragione, o no?
Il tempo fugge, il tempo è prezioso, guai a perdere tempo…
Proprio perché il tempo è la sola risorsa che consumiamo in qualsiasi tipo di attività, passiva, collettiva, economica e non, la sensazione è quella di non averne mai a sufficienza.
Del resto come dice giustamente Emil Oesch, l’autore di “L’arte di avere tempo”: Il tempo è un concetto soggettivo, il tempo è ciò che facciamo di esso.
Avere tempo non significa… ottenere altro tempo per affannarsi ancora di più. Vuol dire invece:
avere tempo per essere uomini liberi,
avere tempo per se stessi,
avere tempo per la famiglia,
avere tempo per tutti coloro che hanno bisogno di noi,
avere tempo per lo sviluppo della nostra personalità,
avere tempo per riflettere,
avere tempo per le cose più importanti.
Curiosando molto rapidamente nei vasti territori del pensiero filosofico si distinguono due concezioni opposte del tempo,che si manifestano rispettivamente nella tradizione del mondo classico pagano e nella tradizione giudaica e cristiana antica.
Il pensiero classico pagano, sin dalla sua preistoria, ha rappresentato il tempo secondo l’immagine di una ruota o di un cerchio che ritorna su se stesso da sempre e per sempre sotto l’azione del movimento degli astri che ne regolano il corso.
Di qui il tempo ciclico è detto anche cosmico, esso è determinato e misurato dalla rivoluzione delle sfere celesti e, per il suo svolgersi ordinato e puntuale secondo la figura appunto del cerchio, è l’immagine mobile dell’eternità immobile e sua imitazione come dice Platone nel Timeo.
Per la tradizione ebraica e cristiana invece il tempo è legato alla creazione e come punto di partenza della discussione viene preso il primo versetto del Genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra “.
Il tempo è creato con il mondo e, da questo punto iniziale, si sviluppa unilateralmente in avanti progredendo verso un futuro che avrà un limite.
Il tempo così è una realtà che ha un inizio e che avrà una fine,è compreso fra due punti ed è rappresentato perciò da una linea.
Due civiltà e due epoche sono scandite da queste due concezioni antitetiche… ma ci pensate come cambia tutto pensando al tempo circolare?
Solo che non ne siamo realmente, culturalmente capaci…
Citando una scrittrice orientale, Chin-Ning Chu l’autrice di “Fare di meno per ottenere di più”, anch’ella cerca di trasmettere l’importanza di avere un atteggiamento o una percezione del tempo corretti… verso noi stessi… per vivere meglio, secondo la sensibilità di un punto di vista culturalmete diverso:
La realtà del tempo esiste solo in noi.
La percezione della durata del tempo varia secondo il personale stato di coscienza.
Cinque minuti possono sembrare un’eternità e cinque ore un attimo.
Sebbene il tempo sia composto da un passato e da un presente, con un potenziale per il futuro, il tempo esiste realmente solo “adesso”, nel momento presente.
Il tempo è una serie infinita di “adesso” uniti insieme.
Ogni istante porta con sé l’intero passato e determina l’intero futuro.
Il modo in cui trascorriamo ogni momento presente crea il nostro destino.
Gestire il tempo significa gestire noi stessi. Significa focalizzarsi, fissare un obiettivo e delle priorità.
Quando ci troviamo “nell’adesso” ci troviamo nell’eternità, nel tempo al di là del tempo.
Quando viviamo reagendo al caos esterno, ci ritroviamo alla mercé del tempo di cui diventiamo le vittime.
Quando dirigiamo la nostra vita dalla serena tranquillità della nostra pace interiore, il tempo ci aiuta e ci protegge.
Quando il nostro tempo è concluso, niente, nemmeno tutto il denaro del mondo, può servire per comperare un singolo istante in più.
Immagina che esista una banca che ogni mattina accredita la somma di 86.400 euro sul tuo conto.
Non conserva il tuo saldo giornaliero. Ogni notte cancella qualsiasi quantità del tuo saldo che non sia stata utilizzata durante il giorno.
Che faresti?
Ritireresti fino all’ultimo centesimo ogni giorno, ovviamente!
Ebbene, ognuno di noi possiede un conto in questa banca. il suo nome? TEMPO.
Ogni mattina ti accredita 86.400 secondi.
Ogni notte cancella e dà come perduta qualsiasi quantità di questo credito che tu non abbia investito in un buon proposito.
Questa banca non conserva saldi ne permette trasferimenti.
Ogni giorno ti apre un nuovo conto.
Ogni notte elimina il saldo del giorno.
Se non utilizzi il deposito giornaliero, la perdita è tua.
Non si può fare marcia indietro.
Non esistono accrediti sul deposito di domani.
Devi vivere nel presente col deposito di oggi. Investi in questo modo per ottenere il meglio nella salute, felicità, successo. L’orologio continua il suo cammino.
Ottieni il massimo da ogni giorno.
Per capire il valore di un anno, chiedi a uno studente che ha perduto un anno di studio.
Per capire il valore di un mese, chiedi ad una madre che ha partorito prematuramente.
Per capire il valore di una settimana, chiedi all’editore di un settimanale.
Per capire il valore di un’ora, chiedi a due innamorati che attendono di incontrarsi.
Per capire il valore di un minuto, chiedi a qualcuno che ha perso il treno.
Per capire il valore di un secondo, chiedi a qualcuno che ha appena evitato un incidente.
Per capire il valore di un centesimo di secondo, chiedi a un atleta che ha vinto la medaglia d’argento alle olimpiadi.
Dai valore a ogni momento che vivi, e dagli ancora più valore se lo potrai condividere con una persona speciale, quel tanto speciale da dedicarle il tuo tempo, e ricorda che il tempo non aspetta nessuno.
Ieri? Storia.
Domani? Mistero.
E’ per questo che esiste il presente. Ricorda ancora: il tempo non ti aspetterà.
Dai valore ad ogni momento a tua disposizione.
Lo apprezzerai ancora di più se potrai condividerlo con qualcuno di speciale.
L’origine di questo pensiero? Sconosciuta.
Proviamo concludere con una poesia datata a.C.
Orazio, Ode I, 11

Leuconoe
Tu non chiedere, non è lecito saperlo,
quale sorte a te , quale a me ,
abbiano assegnato gli déi.
Non scrutare gli oroscopi d’Oriente.
Meglio è accettare
tutto ciò che sarà.
Sia che Giove ti abbia concesso
molti inverni , o sia l’ultimo quello
che ora sfianca
sulle opposte scogliere
il mare Tirreno, sii saggia !
Filtra il vino,
lascia le speranze lontane
perché breve è il nostro viaggio.
Mentre parliamo
il tempo invidioso è già fuggito:
afferra l’oggi
e confida nel domani
il meno possibile.