“Non Si nasce liberi, lo si diventa. Non basta sperare, è necessario osservare con una certa disciplina per realizzare i propri sogni” (Biorn Larsson)Lavorare per consumare non rende felici, ma come uscire da questo, che per molti, è un vicolo cieco?
Incontro gente “felice” della propria vita, incontro persone che vorrebbero “riprendersi” la propria vita; non dico che facciano le stesse cose e vivano nel medesimo contesto, ma le abitudini, gli obblighi, il consumo, sono molto simili.
Un’epoca migliore di questa per il nostro Paese non si era mai vista (nonostante la crisi); fino alla prima metà del secolo scorso c’erano fame, guerre, carestie, malattie ed epidemie, per cui, in definitiva, non ci sarebbe da lamentarsi.
Eppure con la salute, con la pace e col benessere sono sopraggiunte anche l’alienazione e l’omologazione (e ora anche l’insicurezza) e sembra che non vi sia alternativa a una vita spesa a lavorare, produrre, indebitarsi e consumare, ripetendo gesti privi di senso, per troppo tempo, per una vita intera. (Simone Perotti)
Nei paesi ricchi il consumo consiste in persone che spendono soldi, che non hanno, per comprare beni che non vogliono, per impressionare persone che non le amano (Joachim Spangenberg).
Il risultato di tutto questo avanzare a occhi chiusi, accettare le regole imposte dal profitto e dal consumo, è un benessere fittizio.
È di certo un benessere economico, ma non sempre in grado di produrre lo “star bene”, non agevolando né l’armonia né l’equilibrio interiori.
I prodotti, la loro accessibilità, la loro apparente convenienza, sono sufficienti a farci uscire di casa, a percorrere a passo d’uomo strade intasate o a prendere mezzi pubblici schiacciati come sardine, incuranti del costo esistenziale, e sociale, che questo comporta, giungendo infine a schiacciare in un angolo lontano sentimenti e relazioni.
“Ognuno di noi è artista della propria vita: che lo sappia o no, che lo voglia o no, che gli piaccia o no” (Zygmunt Bauman).
Dobbiamo avere quella capacità e quella lucidità di vedere le cose come sono veramente, e non come ci raccontiamo che siano.
Il cambiamento vero, quello possibile, che non genera ripensamenti e frustrazioni, pentimenti e amarezze, non nasce dal disagio.
In ogni epoca di crisi morale, di spiazzamento sociale, si tende a sovrastimare l’effetto di qualche soluzione taumaturgica, ma la ricetta per la felicità non la possiede nessuno, però esistono momenti e condizioni felici.
Esiste la possibilità di intraprendere un percorso di comprensione, di coscienza di sé, che offra maggiori chanche di armonia e leggerezza.
Non è più il tempo di fare sogni che non si possono realizzare, ma di concretizzare i sogni che potremmo realizzare, facendoli diventare veri il prima possibile, per poterceli godere e poterne sognare altri, imparando dai nostri errori, regalandoci armonia ed equilibrio, quindi serenità e benessere.
Monthly Archives: settembre 2011
La comunicazione nei contesti difficili
Qualsiasi tipo di comunicazione è una serie di reazioni e controreazioni.
Di norma, le persone, soprattutto in contesti difficili, reagiscono alle nostre parole nello stesso modo con cui noi reagiamo alle loro, per cui rasserenare l’ambiente, piuttosto che incancrenirlo, dipende anche da noi, dalla nostra volontà di voler riuscire a non farci travolgere dagli eventi non piacevoli.
Quindi, soprattutto in contesti “tesi”, avere la capacità di reagire diversamente alle aspettative della controparte (ad esempio seppur pesantemente provocati restiamo sereni e pacati, ma allo stesso tempo fermi e decisi) può spezzare il circolo vizioso, ridimensionando la situazione spiacevole e migliorando la comunicazione tra le parti.
Tutti reagiamo all’imbarazzo ed alla timidezza in modo diverso; ci sono persone timide e schive, ed altre estroverse e talvolta esageratamente esuberanti e sicure di sé.
Rispondere bruscamente a tono a qualcuno che ci sta “disturbando”, è una reazione perfettamente naturale, ma difficilmente questo migliorerà una situazione, se non per il fatto che l’esserci sfogati, almeno per un breve lasso di tempo, possa essere una soddisfazione.
In realtà ci siamo lasciati trascinare nel “marasma comunicativo” della nostra controparte.
Personalmente quando percepisco che la mia parte emotiva, quella strettamente legata al mio piccolo ego, sta per prendere il sopravvento, cerco in ogni modo di rimandare la questione, anche solo di qualche istante, al fine di recuperare quell’equilibrio interiore che può farmi uscire indenne, o con i minori danni possibili, da una “relazione” controversa.
Riuscire a riequilibrarsi vale sia quando abbiamo a che fare con persone prepotenti, sia quando il prepotente potremmo essere noi.
Di fronte ad un attacco personale abbiamo la possibilità di difenderci ad oltranza, magari contrattaccando allo stesso modo, dando vita a un bel gioco a somma zero di tipo cruento, con la più probabile delle conseguenze: allontanare definitivamente le “parti” salvo poi obbligarle, se costrette comunque a relazionarsi, ad arrampicarsi sugli specchi per costruire quantomeno una “pseudo relazione formale” che le aiuti nei loro intenti.
Possiamo invece rimanere calmi ed attendere la fine della “requisitoria” della nostra controparte per poi chiedere “a questo punto cosa possiamo fare per risolvere il problema”?
Le reazioni a questa domanda possono andare dall’ulteriore innalzamento dei toni della controparte, al suo spostare l’angolo di visuale dal volersi sfogare al voler risolvere il problema.
Mi è capitato di ripetere anche più volte in uno stesso colloquio la richiesta di come avremmo potuto risolvere la situazione (argomentandone e motivandone il perché) non cavandone un ragno dal buco, ricevendo anzi improperi e vibrazioni di rabbia, ma nella maggior parte dei casi, se non alla prima, alla seconda richiesta la controparte comincia a mutare atteggiamento ed obiettivo.
Se alla rabbia rispondiamo con la rabbia è quasi sempre garantito che il nostro interlocutore ci risponderà alzando i toni, con la conseguenza che l’uno finirà col non rendersi minimamente conto di quello che l’altro sta dicendo, a prescindere dalla verità e dall’oggettività delle sue affermazioni.
Controllando invece le nostre emozioni non solo avremo la possibilità di capire e di farci capire, ma ritroveremo sicurezza e padronanza nella situazione.
Arrabbiarsi non è l’unica reazione dannosa che possiamo avere; è negativo anche non riuscire a farsi valere, scusarsi e mettersi eccessivamente sulla difensiva.
Gestire un contesto difficile richiede una grande apertura, anche laddove sarebbe naturale chiudersi.
Una persona che si stava sfogando con un suo fornitore utilizzando termini e modi poco urbani si sentì dire a un certo punto “Mi dispiace che, nonostante tutti i tentativi, io non riesca a trovare il modo di poterle essere utile. Spero almeno che l’avermi manifestato tutto il suo disappunto l’abbia, almeno, fatta sentire meglio”.
La reazione della persona fu non solo di scusarsi, ma di divenire collaborativa per quello che era il suo vero obiettivo: risolvere il proprio problema.
Occorre gestire e padroneggiare le proprie emozioni . . . sempre.
Creare impressioni favorevoli
Il discorso di creare impressioni è forse un po’ trito e ritrito, ma non per questo meno importante.
D’altronde quanti di noi restano colpiti da una prima impressione, dalla quale traggono subito un’idea, positiva o meno, del proprio interlocutore, della situazione, della proposta, ecc.
Colui che sa relazionarsi lo sa bene, ed è per questo che cerca di porre in essere azioni e comportamenti adeguati a controparti e contesti.
Il manager è persona che vive di relazioni con molte persone, sia nel professionale, che nel privato; è probabile che non potrà ricordarsi di tutte, e loro potrebbero benissimo ricordarsi, o non ricordarsi, di lui.
Nel dubbio sarebbe sempre bene presentarsi con nome e cognome.
Può sembrare un punto banale o secondario, ma questo piccolo dettaglio illustra chiaramente cosa vuol dire dare la giusta impressione, evitando spiacevoli imbarazzi.
“There’s no a second time to give a first good impression” è un detto anglosassone che esprime chiaramente l’importanza del creare impressioni favorevoli e che parte dal presupposto che ogni incontro, anche il millesimo con lo stesso interlocutore, è sempre una piccola prima volta.
Sono le piccole cose, che spesso, nel bene e nel male, producono negli altri un’impressione più duratura; se vogliamo essere percepiti bene, se vogliamo sentirci ed essere considerati “persone giuste nel posto giusto” dobbiamo prestare attenzione a come ci comunichiamo anche nelle cose più semplici, dall’abbigliamento alla telefonata, da come salutiamo allo stile di una lettera.
Michelangelo soleva affermare che sono i dettagli a fare una capolavoro e i gesuiti affermano che il diavolo è nei dettagli.
Molto semplicemente sono i dettagli che mettiamo in campo, e come lo facciamo, che potranno impressionare favorevolmente o meno gli altri.
Che si tratti di assumere un collaboratore che vorremmo strappare alla concorrenza, di conquistare un nuovo cliente, di convincere il Consiglio d’Amministrazione, o di promuovere una campagna istituzionale, noi dobbiamo, prima di tutto, avere la capacità di impressionare favorevolmente gli altri perché ci riconoscano autorevoli, affidabili, accessibili.
Creare impressioni favorevoli è un’arte sottile, che può essere esercitata solo se ci ricordiamo, in ogni momento, chi siamo e come siamo, evitando di recitare una parte che non ci si addice e che, prima o poi, ci metterebbe di fronte a ingestibili imbarazzi.
Creare una buona impressione può voler dire, semplicemente, trattare la gente per come vuole essere trattata, creando un’idea complessiva e duratura di competenza, efficienza, maturità e giusta energia.
Abbiamo già parlato più volte dell’importanza del saper ascoltare e, a differenza di quanto si possa pensare, la maggior parte dei nostri interlocutori hanno di noi un’immagine di competenza ed efficienza, non tanto per quello che sappiamo dire o fare, ma nella misura in cui si sentono ascoltati e capiti attraverso le nostre risposte ed azioni.
In un mondo dove tutti vogliono esprimere opinioni e giudizi, l’arte di ascoltare, è forse la cosa più difficile da mettere in pratica, perché si tratta di un silenzio maturoche ascolta e riconosce, rispettando, chi parla.
Dobbiamo perciò essere consapevoli che possiamo essere il miglior amico, o il peggior nemico, di noi stessi e che, quotidianamente, abbiamo un’infinità di sottili occasioni per creare una buona impressione, ma ne abbiamo anche di ben più grossolane per crearne una cattiva.