Parlare

Quando parliamo con qualcuno, la prima cosa da fare è spedire il messaggio nella porta giusta.
I cinque sensi sono le nostre finestre sul mondo, le nostre porte percettive spalancate sulla realtà esterna.
La vista, l’udito, il tatto, il gusto e l’olfatto sono le vie d’ingresso degli stimoli che riceviamo dal mondo esterno.
I sistemi sensoriali agiscono in due direzioni: ci mettono in grado di decodificare le informazioni provenienti dall’esterno e ci forniscono la materia per costruire o ricostruire le esperienze con la mente.
La capacità del nostro cervello di creare immagini o suoni mai vissuti si fonda proprio sulla elaborazione di esperienze sensoriali archiviate nella memoria, che sono poi assemblate secondo nuovi schemi per generare prodotti originali.
Pensiamo, ad esempio, alla pittura, alla musica e a tutte le forme di creazione artistica.
Con i sensi si percepiscono immagini, suoni, sensazioni, sapori e odori che, passando per i canali sensoriali, contribuiscono a costruire la nostra rappresentazione interna soggettiva della realtà esterna.
Quale sia la forma di archivio preferito, però, dipende dal canale sensoriale dominate di ciascuno di noi.
La presenza di una via privilegiata per alcune tipologie di stimoli significa solo mettere in ordine i dati secondo un preciso criterio, per ritrovarli ed utilizzarli con facilità.
Il nostro cervello, infatti, utilizza comunque anche gli altri sensi, anche se lo fa in misura minore.
Ad esempio, se preferisco memorizzare le esperienze come fotografie, potrò anche aggiungere suoni o profumi, ma il primo ricordo sarà sempre fatto di forme e colori.
Quando si conversa con qualcuno, quindi, è essenziale parlare con chiarezza e con calore al suo cervello: se entriamo dall’ingresso preferenziale, troveremo la sua disponibilità ad ascoltare tutto quello che abbiamo da dire.

L’approccio professionale alle relazioni interpersonali

La comunicazione è efficace quando ci consente di raggiungere i nostri obiettivi senza dispersioni e senza creare conflitti.

Gli uomini comunicano tra loro fin dai primi momenti della loro esistenza, ma non per questo tutte le comunicazioni sono efficaci: ognuno ha avuto esperienze negative in proposito; distorsioni, equivoci, incomprensioni sono all’ordine del giorno e sono la fonte di molti problemi interpersonali.

Per cercare di evitare questi pericoli e accrescere la propria efficacia è necessario affrontare la comunicazione interpersonale con un “approccio professionale”.

Conoscenza e feed-back sistematico differenziano “il professionista dal dilettante”.

Innanzitutto la comunicazione è un processo ed è costituita da una serie di sequenze comunicative elementari irreversibili per le quali ogni interlocutore influenza l’altro in un processo a spirale frutto di continui aggiustamenti: comportamento genera comportamento.

Occorre poi considerare la molteplicità dei fattori comunicativi e tra questi sono particolarmente importanti i canali attraverso i quali comunichiamo, i codici con i quali vengono strutturati i messaggi e il contesto in cui avviene la comunicazione. Il canale verbale, le parole che noi pronunciamo, è sempre accompagnato dal canale non verbale individuabile nel modo in cui vengono gestiti lo spazio, la posizione del corpo nello spazio, come vengono pronunciate le parole, i movimenti del corpo e la direzione dello sguardo.

Va poi detto che attraverso la comunicazione non si trasmettono solo contenuti e informazioni, ma anche relazioni e emozioni. Il contenuto, il copione di una sequenza comunicativa, può essere lo stesso, ma il modo in cui viene “recitato” può dare luogo a interazioni completamente diverse.

Attraverso la dimensione relazionale della comunicazione si può valorizzare l’interlocutore, colpirlo e offenderlo, rassicurarlo o minacciarlo, commuoverlo o innervosirlo.

Non ultimo il ruolo del mondo interno, legato alle strutture organizzative dell’esperienza di ciascuno degli interlocutori. Esse agiscono come un filtro. Interpretano gli stimoli ricevuti dal mondo esterno e influenzano la successiva risposta. Il comportamento di una persona si può spiegare solo tenendo conto di entrambi i fattori: gli stimoli ricevuti e l’azione del suo mondo interno. Questo fenomeno assolutamente normale e fisiologico – abbiamo bisogno di interpretare la realtà per agire in essa – può tuttavia avere un effetto distorcente. Possiamo essere indotti a interpretare i messaggi dell’altro assumendo noi stessi come metro di misura, giudicando la realtà a nostra immagine e somiglianza.

Di solito si insegna alle persone questa regola: ‘Tratta gli altri come vorresti essere trattato tu ’. Si tratta di un principio di grande valore morale, perché afferma l’uguaglianza degli uomini e la necessità del rispetto reciproco, ma se viene applicato in modo letterale rischia di essere poco efficace nella relazione interpersonale.

Per essere efficaci nella relazione interpersonale dobbiamo essere flessibili. La regola tradizionale va sostituita con quest’altra: ‘Tratta gli altri come gli altri desiderano essere trattati ’. Essere flessibili significa dunque adottare stili di comunicazione diversi in funzione delle caratteristiche dell’interlocutore.

La flessibilità richiede consapevolezza dei propri comportamenti spontanei in condizioni normali e sotto pressione. L’antico motto ‘ conosci te stesso ’ è un presupposto essenziale per essere flessibili. Se non si è consapevoli dei propri schemi di comportamento spontanei e del loro impatto sugli altri, difficilmente si potrà pensare di controllarli e di gestirli a seconda delle situazioni. Essi entreranno in funzione automaticamente e se non saranno adeguati alle circostanze ne subiremo gli effetti.

Felicità?

Potremmo stare ore a discutere sulla felicità.
La felicità è un modo di essere: non c’è nessun motivo per essere felici, nel senso che non c’è nessun motivo per non esserlo.
Quello che forse spesso ci manca è un qualcosa di importante per andare avanti nella vita di tutti i giorni, per decidere cosa fare, quasi per poter “giustificare” il fatto di essere felici, anche se non ci sarebbe bisogno di giustificazioni…
Secondo questo ragionamento, siccome la nostra vita va avanti come la impostiamo noi, la nostra felicità dipende da noi, e quindi ognuno di noi ha il suo particolare tipo di felicità: non esiste “la felicità”, esiste la tua felicità, la mia felicità, la felicità di ciascuna singola persona che vive nel mondo.
E questo non è bellissimo? Che soddisfazione ci sarebbe se fosse già tutto definito, già tutto fatto, se ci fosse una “soluzione unica”? Il bello della vita è appunto viverla, correndo magari il rischio di sbagliare.
Se proprio vogliamo scovare un sistema per essere più felici, o per  non sentirci “colpevoli” di essere felici (che comunque è un po’ da paranoici), secondo alcuni un modo potrebbe essere aiutare gli altri ad essere più felici.
Chi lo sa, magari può bastare aiutare una persona sola a prendere coscienza che, soddisfatti i bisogni fondamentali, sicuri che nessuno soffra per colpa nostra,  non c’è proprio motivo per non essere felici!
L’importante è provarci, iniziando a prendere le cose con lo spirito giusto.
Non facciamoci imporre o suggerire dagli altri quali cose dobbiamo fare o pensare per essere felici.
Il processo di globalizzazione sta cercando di globalizzare anche la felicità, ma non siamo tutti felici nello stesso modo.
Nella storia, il dominio di una certa idea di felicità ha creato tensione, odio e paradossalmente infelicità.
E questo si sta ripetendo: i mezzi di comunicazione di massa tendono a proporre un’idea standard di felicità, una felicità in scatola che spesso finisce per violentare l’idea di felicità personale, e anche l’idea di felicità propria di altre culture, scatenando violenza ed incomprensione invece di creare arricchimento.
Non solo.
Se qualche secolo fa la felicità era un privilegio di pochi e dopo la Rivoluzione Francese un diritto, oggigiorno la felicità è quasi un dovere, anzi un obbligo.
Rifiutiamo la sofferenza, la morte, la fatica, il sacrificio, come se non fossero altre facce della felicità, come se i momenti più belli della nostra vita non venissero spesso dopo periodi di sacrificio e magari anche dolore.
Eppure la modernità dovrebbe rendere più facile l’essere felici. Stiamo fisicamente bene, abbiamo mille possibilità di divertimento, di socializzazione e comunicazione. Non solo la tecnologia ci aiuta, ma anche il maggior tempo libero a disposizione. Eppure la tentazione di chiuderci in noi non è mai stata così forte: non possiamo vivere senza gli altri ma l’incontro con gli altri ci mette spesso in difficoltà. Persone, visioni della vita e del mondo, culture, religioni. E un senso di individualità esasperante, una cultura o pseudocultura che identifica la felicità con la completa soddisfazione dei capricci individuali.
Che felicità è quella che mette i piedi sui sentimenti, sulla fiducia e sulla felicità degli altri?
Ma è così difficile essere felici? E serve proprio essere felici?
Ma sì, ogni tanto fa bene essere felici con sé stessi, sentirsi bene e un pochino soddisfatti. Ogni tanto serve sentirci a posto con il resto del mondo. Per farlo forse serve comprendere ed accettare sé stessi, serve comprendere ed accettare gli altri, con tutta la dose di pazienza conseguente… Serve capire cosa possiamo fare, cosa è giusto fare per noi e per gli altri. Serve anche capire quando fermarci un po’ e non fare proprio niente.
Il concetto stesso di felicità è di proprietà del pensiero occidentale, come pure il concetto di meta da raggiungere.
Nel cinese antico (in realtà non esiste una sola lingua “cinese” ma sarebbe un lungo discorso) non esistono parole per “felicità” o per “meta”, “obiettivo”… In effetti alcuni studiosi spiegano questo con il fatto che i cinesi, più saggi di noi o forse solo più fortunati, hanno schivato fin dal principio (e quindi poi di conseguenza anche nelle opere dei filosofi: Zhuang-zi o Chuang-tzu, Laozi o Tao tê ching, ecc), il concetto di “felicità” e quindi anche quello di “infelicità”, che vanno a braccetto, e hanno invece privilegiato il concetto di equilibrio, di nutrire giorno per giorno la propria vita senza eccessi, senza aver bisogno di una meta… cosa molto comoda visto che se ci pensiamo bene permette di essere soddisfatti ogni giorno invece che stare in ansia fino a quando non si raggiungerà la agognata meta.
I concetti felicità / meta infatti hanno parecchi svantaggi. Primo bisogna vedere se la si raggiungerà questa meta. Secondo molte volte una volta raggiunta questa meta la “felicità” finisce presto, e si ha bisogno di un’altra meta.

In effetti siamo un po’ sfortunati ad essere nati occidentali… il pensiero occidentale (o meglio il pensiero nato dalla lingua greca / latina) cerca mete, felicità, seziona e spacca il capello in quattro, il pensiero orientale (o meglio il pensiero nato dalla lingua cinese) dice essenzialmente stai tranquillo, agitati di meno, pensa a quello che stai facendo oggi. In effetti il pensiero orientale più ampio che si riferisce al Tao / Lao-tse trova eccessivo anche Confucio, che aspirando alla “virtù” si pone già una meta e quindi si agita già troppo. Secondo i contestatori di Confucio, nemmeno a dirlo, aspirando “troppo” alla virtù si rischia di non raggiungerla, e, anzi, di fare del danno.
Il che se ci pensiamo ha senso: quante persone fanno o hanno fatto nella storia danni più o meno terribili, partendo da buoni principi e buone intenzioni…
Insomma per esempio anche “aiutare gli altri” può essere un gran danno, se non hanno nessuna voglia di essere aiutati.
Comunque sia, questo pensiero occidentale ora invade l’oriente… ma l’occidente a volte non è molto soddisfatto…  quindi mentre una parte dell’occidente “invade”, un’altra si interessa anche al pensiero orientale.
Ci si sente un po’ una mosca bianca nello scrivere la prima parte di questa pagina (non c’è nessun motivo per essere felici, nel senso che non c’è nessun motivo per non esserlo)… che forse è il caso di essere contenti che oggi c’è il sole, o è una bella serata, pensare un po’ di più alle cose di tutti i giorni e rincorrere meno la carota e la paura del bastone.
D’altra parte a volte è bello avere qualche meta da inseguire, qualcosa per cui valga la pena.
Forse il concetto potrebbe essere quello di scendere dal treno che molto spesso ci trasporta, per fare un nostro cammino a piedi: più tranquilli, più in armonia con il mondo, senza rinunciare a qualche meta ma godendoci di più il viaggio…
Cominciando a parlare per paragoni come i cinesi quindi per quanto riguarda viaggiare il  cervello può viaggianre molto.
(www.Paperinik.com)

Conflitto e aggressività

Nella vita di ogni giorno tutti adottiamo comportamenti diversi a seconda delle situazioni.
La psicologia li ha sintetizzati in tre di principale riferimento: aggressivo, di rinuncia, assertivo.
Sia il comportamento aggressivo, che quello di rinuncia, danno vita a una comunicazione compromessa.
Il comportamento aggressivo nasce da un’attenzione prevalente verso se stessi (egocentrica), da un’inclinazione a prevaricare e sopraffare, e si manifesta soprattutto con frequenti critiche, ironie, accuse e svalutazioni dell’altro.
Gli obiettivi di chi manifesta questo stile di relazione vanno dall’apparire e volersi mostrare forte, al voler incutere paura e soggezione.
Chi vuole difendere una posizione di privilegio o potere che sente attaccata, chi individua un nemico nella controparte, utilizza l’aggressività nel tentativo di annientarlo.
Inoltre l’aggressività può esplodere quando si sono adottati in precedenza comportamenti di rinuncia, quando in passato questo modo di rapportarsi ha dato risultati ritenuti validi, quando si vuol mal celare un disagio interiore, quando comunicare diventa faticoso.
L’altra faccia della medaglia è data dal comportamento di rinuncia, legato all’attenzione prevalente agli altri, piuttosto che a comportamenti imitativi o a un forte condizionamento, ovvero semplicemente a conformismo.
Gli obiettivi del rinunciatario sono sicuramente quelli di evitare qualunque tipo di conflitto, ottenere la benevolenza altrui ed essere quindi accettato, non essere oggetto di aggressione.
Si rinuncia perché non si vuole passare per aggressivi, perché scambiamo questo comportamento per cortesia o buone maniere e si pensa di dare un aiuto con questo atteggiamento, o semplicemente perché pensiamo di non aver diritto ad esprimere le nostre idee, abbiamo paura delle conseguenza, ci sentiamo inadeguati.
La comunicazione efficace ha bisogno di assertività.
L’assertività nasce da un buon rapporto con se stessi e con gli altri e ha i suoi presupposti in relazioni bilanciate, nel piacere del cooperare, nell’equilibrio tra razionale ed emotivo, in comportamenti propositivi.
Gli obiettivi di pone in essere comportamenti assertivi sono identificabile di raggiungere un successo personale da condividere con il successo altrui, aumentando così stima ed autostima, attraverso la cooperazione e la soluzione dei problemi.
I comportamenti aggressivi e passivi sono provocati dalla sfiducia in se stessi, dalla sfiducia di non poter perseguire i propri obiettivi, da un sentimento profondo di inadeguatezza.
Il comportamento assertivo, per contro, nasce dalla fiducia in se stessi e negli altri, da sentimenti di adeguatezza e da desiderio di realizzazione, ed è un comportamento socialmente efficace.