Cosa vuol dire comunicare

Quando interagiamo con altre persone il nostro comportamento si può considerare come una serie di messaggi rivolti alle persone con cui si comunica.
Questi messaggi possono essere intenzionali o non-intenzionali.
La comunicazione è definita come “lavoro di produzione e di percezione di senso”.
Comunicare richiede dunque un impiego di energia (lavoro) sia quando si trasmette (produzione) sia quando si riceve (percezione).
Facendo riferimento alla teoria dei sistemi si può altresì definire come l’insieme delle relazioni che intercorrono tra gli individui e tra questi e il loro ambiente di vita.
A questa affermazione che può sembrare ovvia  si è giunti partendo dalla considerazione che l’uomo come animale e membro di una società non può essere isolato dal contesto in cui vive.
Vanno sempre considerati gli effetti che il suo comportamento ha sugli altri individui e le loro reazioni, queste creano quindi una reciprocità dalla quale nasce la comunicazione.
A Gregory Bateson dobbiamo l’intuizione che la comunicazione nasce e si sviluppa in una continua mediazione fra le differenze individuali in un universo di messaggi che acquisiscono significato solo all’interno del contesto ambientale degli individui stessi.
Quando si comunica con qualcuno ci si deve dunque porre continuamente questa domanda: “Quello che voglio far percepire corrisponde a quello che lui davvero percepisce?”.
In realtà è impossibile rispondere a questa domanda con certezza, perché non possiamo entrare nella testa di chi ci ascolta, ma curando la nostra efficacia comunicativa otterremo eccezionali risultati.
Un presupposto fondamentale è sapere a cosa si deve fare attenzione, per individuare con chiarezza i punti sui cui esercitarsi.
In questa sede ci occuperemo delle relazioni interpersonali che si creano tra una persona e il suo pubblico.
Innanzi tutto definiamo le aree d’indagine in cui si definisce lo studio della comunicazione umana.
Esse sono tre: la sintassi, la semantica e la pragmatica.
Lo studio della sintassi ha a che fare con la trasmissione dell’informazione, ovvero con la codifica sintattica dei messaggi, ai canali, alla capacità, alla ridondanza ed altre proprietà statistiche del linguaggio, che non prende in considerazione l’analisi dei significati insiti nelle unità di comunicazione.
Lo studio della semantica si occupa appunto dell’analisi del significato dei simboli che vengono trasmessi da un individuo all’altro nell’interazione comunicativa, presupponendo l’esistenza di convenzioni semantiche che permettano la trasmissione delle informazioni.
Lo studio della pragmatica si basa su due concetti molto semplici: la comunicazione influenza il comportamento e tutto il comportamento è comunicazione.
I dati che vengono presi in esame saranno dunque: le parole, le loro configurazioni, i loro significati, tutto il non-verbale concomitante ad esse, il linguaggio del corpo e i segni di comunicazione inerenti al contesto della comunicazione.
La pragmatica considera non il messaggio monofonico nella sua unità, ma il composto dei comportamenti significanti che nella loro interazione legittimano uno il significato degli altri.
Detto così sembra difficile, ma  si tratta della propria esperienza quotidiana e il diventarne consapevoli arricchisce di molto la qualità della vita.

Time Management: questione di buone abitudini

«È tardi, è tardi, sono in ritardo, in arciritardissimo!», così urlava il povero Bianconiglio nel celebre romanzo di Lewis Carrol (Alice nel paese delle meraviglie), girando con un vistoso orologio nel panciotto e correndo a gambe levate.
Decisamente a lui mancava il concetto di Time Management, ovvero la capacità di collocare efficacemente le azioni nel tempo, caratteristica che è invece fondamentale per il successo di un progetto.
Il tempo è l’unica risorsa assolutamente non governabile e invariabile, e sostanzialmente si può dividere in tre grandi aree: tempo lavorativo, tempo libero e tempo “indispensabile” (per mangiare e dormire).
Considerando che il tempo per il mantenimento del proprio benessere fisico non dovrebbe mai essere sacrificato, anche se purtroppo accade più spesso di quanto non si vorrebbe, ci si dovrebbe dedicare a migliorare l’efficienza delle altre due tipologie attraverso un’organizzazione efficace delle proprie attività.
È interessante a questo proposito, ricordare il Principio di Pareto o legge 80/20 (in realtà Pareto formulò un’osservazione sulla distribuzione dei redditi e fu Joseph M. Juran a generare l’osservazione empirica chiamata legge 80/20 n.d.r.).
Secondo questa legge, per qualsiasi campo di applicazione il 20% di qualche cosa è solitamente responsabile per il restante 80%, ovvero 20% è importante, 80% è banale.
È come dire che “la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause”.
Applicando la regola al tempo lavorativo se ne deduce che il 20% del lavoro consuma l’80% di tempo e risorse.
Quindi molto se non troppo tempo viene sprecato e per cose non importanti.
A questo si aggiunga la diffusa abitudine di sentirsi “schiavi del tempo” e avere l’atteggiamento mentale di dover “riempire il tempo” che sono esempi di un approccio fallace.
In questi casi ci si lamenta perché si hanno troppe cose da fare e perché non si riescono a fare tutte.
Il paradosso è quello di essere sempre estremamente impegnati, freneticamente occupati, ovvero essere sempre in uno stato di emergenza, continuando però a posporre le cose che sono veramente prioritarie.
Ne consegue una perdita di efficienza, di produttività, un mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati ed un inevitabile fallimento delle attività operative assegnate.
Per chiunque tutto ciò rappresenta un problema, per un Project Manager è tanto dannoso quanto intollerabile, dato che lavorare per obiettivi e scadenze rappresenta la normale modalità di lavoro.
Sfruttando quindi la regola di Pareto, un Project Manager si deve focalizzare sul ciò che è realmente importante cioè il solo 20%, perchè produce maggiori risultati.
Troppo spesso soddisfare le attese degli altri che siano clienti, collaboratori, familiari porta a lasciarsi influenzare da infondate urgenze e a dedicarsi a cose non strettamente necessarie, innescando così una gestione passiva del tempo.

Fiducia: coerenza esteriore, coerenza interiore

Adempiere agli obblighi esteriori non è sufficiente per meritare la fiducia.
Presentarsi puntuali agli appuntamenti, rispettare gli impegni, mostrare sempre lo stesso atteggiamento, conferisce un’apparenza di impeccabilità, ma facilmente incrinabile: fa trapelare la preoccupazione di voler fornire un’immagine di sé professionale e rigorosa e di non voler investire nella relazione anche un lato più umano di sé.
Meritare la fiducia non implica aderire ad una linea rigidamente coerente, ma richiede autenticità e congruenza tra i sentimenti manifestati e quelli effettivamente provati.
Nell’ambito dell’insegnamento la freddezza del docente si ripercuote negativamente sulla motivazione ad apprendere e sull’interesse dello studente verso la materia.
In ambito psicoterapeutico il formalismo del dottore impedisce al paziente di essere completamente se stesso e in generale nelle relazioni umane porsi come modello di perfezione a cui l’altro debba ispirarsi e dai cui l’altro debba dipendere rende tesa la relazione e la snatura, facendole perdere la sua essenza paritetica e facendole assumere connotati gerarchici.

Empatia e Simpatia

Le relazioni umane sono fondate, o così dovrebbe essere, sull’empatia.
La parola empatia, la cui etimologia conduce al significato di passione/sofferenza, è utilizzata in vari campi della conoscenza: dalle scienze naturali alla medicina, dalla psicoanalisi all’arte, così come è spesso chiamata in causa per denotare la qualità delle relazioni interpersonali ( affettive, professionali, sociali).
Empatia rimanda al rapporto tra individui quando essi si trasmettono l’un l’altro contenuti emozionali e non solo idee e valori.
Il termine indica l’incontro tra due o più soggettività che restano tali pur se, proprio attraverso la relazione, si trasformano acquistando, l’una dall’altra, nuove risorse emotive e cognitive.
Il concetto di empatia è legato, più che ad altri, al nome di Carl Rogers, uno psicologo statunitense che elaborò la cosiddetta terapia centrata sul cliente o terapia non direttiva .
Rogers intendeva dire che l’esperienza narrata dalle persone non è da interpretare, o spiegare, bensì è da comprendere.
Interpretare, infatti, è un processo cognitivo che ha origine da ciò che si sa e da ciò che si è: significa, dunque, attribuire all’oggetto dell’osservazione un senso che deriva dalla propria esperienza e su di essa si poggia in misura preponderante.
Spiegare è, invece, cercare in ciò che si vede e si sente una concatenazione causa – effetto: è trovare l’origine dell’evento.
Si tratta di un processo fondato sul distacco emotivo soggetto – oggetto tipico del metodo scientifico, però poco adeguato ad intendere quanto accade nell’agire umano che si realizza al contrario in un ambiente pervaso da una moltitudine di variabili meno controllabili rispetto a quelle che abitano il laboratorio dello scienziato fisico e naturale (anche gli scienziati sociali si avvalgono spesso di laboratori artificiali nel tentativo di assimilare lo studio del comportamento umano a quello degli eventi fisici ).
Empatia vuol dire piuttosto sentire l’emotività racchiusa nell’esperienza altrui e non solo recepirne i contenuti.
Empatia è prevedere dove condurrà quel dato modo di agire, più che spiegarlo.
Essa non è cercare le cause di ciò che l’altro fa bensì individuare le condizioni materiali, morali, psicologiche che hanno permesso alla causa di produrre il suo effetto .
Empatia è contenere sé e l’altro: è immergersi nella sua soggettività, nel suo modo di vedere il mondo e di sentirlo senza che ci sia identificazione.
E’ un processo edificato sul come se, sul sentire come se io sentissi al posto dell’altro.
Empatia non è sostituirsi ma unirsi senza dimenticarsi di sé.
Il come se, dunque, consente e protegge quella distanza necessaria all’ascolto ed alla comprensione.
Non stiamo tornando al distacco scientifico, dove non c’è coinvolgimento tra osservatore ed osservato.
Empatia prevede un tipo di distanza che protegge la diversità propria ed altrui, una separazione che consente di aggiungere la propria visione della realtà a quella dell’altro, che arricchisce con nuove risorse e non impoverisce, invece, attraverso la fusione tra sé e l’altro.
Empatia è procedere insieme restando due.
Si è empatici quando si riesce ad immedesimarsi nell’altro comprendendone l’esperienza nella sua totalità, anche lì dove essa presenti conflittualità, contraddizioni e negatività ma senza azzerare il valore della propria esperienza.
La storia personale, infatti, non è il filtro attraverso cui interpretare le storie altrui bensì è il punto di partenza per operare quel confronto che permette la cognizione esatta dell’altro, nella sua diversità ed unicità.
L’esperienza propria è allora uno strumento ermeneutico, non il punto di arrivo delle valutazione riguardo il mondo.
Posta la discussione in questi termini, essere empatici pare sia l’esito di un atto di volontà.
In realtà immedesimarsi nell’altrui esperienza è il risultato di una procedura emotiva e cognitiva complessa e che ha come scopo la sospensione del giudizio sull’estraneo.
Si è empatici, cioè, quando si interrompe l’azione valutativa con cui ci si accosta al diverso da noi, tale solo in quanto esterno alla nostra storia ( il diverso, in un dato momento, può essere anche un figlio, un coniuge, un amico che in quel momento vive un’esperienza altra rispetto al nostro bagaglio di vita e alle nostre consuetudini).
Sospendere il giudizio, a sua volta, è l’esito della consapevolezza delle proprie emozioni, percezioni, sentimenti e convinzioni.
E’ il risultato della capacità di ascoltarsi e di scindere i propri vissuti dall’esterno, o meglio, del comprenderne l’effettiva corrispondenza, senza svalutazioni né grandiosità.
Solo avendo consapevolezza di sé è possibile un atto di volontà e decidere di non giudicare bensì di attendere ed ascoltare.
Se così non fosse, se empatia volesse dire soltanto conoscere/emozionarsi/spiegare, come potrebbe, ad esempio, un Operatore Sociale comprendere l’alcolista o il tossicodipendente o l’ex – detenuto ?
Come potrebbe dare ascolto a chi non ha lavoro, a chi vive una situazione di degrado morale e materiale?
In ogni caso, al di là dei ruoli e delle specifiche situazioni, con quali strumenti intellettivi ed emotivi potremmo mai accogliere e dare ascolto a chi ha una storia che è lontana dalla nostra storia?
E’ l’empatia, qui intesa appunto come pausa e sospensione del giudizio, che permette di comprendere ciò che non si conosce, o che non si conosce ancora .
L’empatia è una condizione diversa dalla simpatia.
Con questa parola intendiamo l’immedesimarsi nell’altro ma a condizione che sia un estraneo vicino a noi per convinzioni e atteggiamenti, che appartenga a dimensioni umane, sociali, etiche, psicologiche per noi previste e prevedibili.
Dunque un altro che sia espressione di una realtà controllabile, spiegabile e pertanto inoffensiva.
Un altro, quindi, con noi coerente.
La simpatia è verso chi non è percepito come minaccia cioè chi non mette in discussione il nostro sistema di valori.
Simpatia è una condizione che si realizza all’istante, che avviene, come si dice ordinariamente, a pelle.
Nel momento in cui la si percepisce, è inspiegabile.
Simpatia rende possibile accoglienza ed ascolto ma solo verso chi rientra nel nostro campo emotivo e cognitivo.
Essa è causa ed effetto di un filtro. Si ascolta chi piace e, della sua esperienza, si comprende solo ciò che piace.
Essa è un sentire che non prevede il come se: è un effettivo unirsi, patire insieme, condividere emozioni positive o negative non come se si fosse l’altro ma proprio essendo l’altro.
E’ un totale identificarsi, proiettarsi, dimenticarsi di sé.
La simpatia, in sintesi, è la condizione che impedisce un effettivo ascolto dell’altro, inteso come comprensione dell’alterità .
Essa può essere accompagnata all’empatia, ma solo verso chi è già noto.
Empatia, al contrario, quella verso anche chi è diverso, può esserci senza simpatia.
La simpatia, dunque, è accogliere la sofferenza altrui ma solo se tale sofferenza è comprensibile.
Si comprende, dunque, a patto che si capisca.
L’empatia, viceversa, è comprendere anche senza capire.
E’, semmai, la premessa alla comprensione. Per la simpatia, invece, è appunto il contrario.
Empatia e simpatia sono condizioni interiori, stati d’animo, tipi di disposizione verso l’altro.
Quali sono, però, le possibili manifestazioni comportamentali che li denotano?
Come comunica, cioè, chi prova empatia verso il suo interlocutore e come comunica, invece, chi avverte simpatia?
Per cercare risposte, rivolgiamoci a situazioni in cui l’incontro è con chi vive una situazione problematica e, in modo diretto o ( come spesso accade) indiretto, chiede conforto e consiglio rispetto al dilemma che vive.
Sono i momenti in cui, allora, si è inseriti (a prescindere dal ruolo e dalla natura del rapporto ) in una relazione di aiuto.
Come già si è accennato, è tale quel rapporto in cui qualcuno chiede sostegno a qualcun altro per fronteggiare un problema materiale o psico – comportamentale, o di entrambi i generi, rispetto al quale non ha, o sente di non avere, risorse.
Una sorta di automatismo semantico conduce a considerare ” relazioni di aiuto” esclusivamente rapporti istituzionalmente definiti tali: medico – paziente, docente – discente, operatore – utente (anziano, ammalato, portatore di handicap, alcolista, ecc).
Questa consuetudine porta a trascurare il fatto che ognuno, nella quotidianità, spesso esplica il ruolo di chi, nella relazioni di aiuto, procura sostegno.
Ognuno può trovarsi impegnato in una relazione di aiuto. Intendiamo dire che è frequente il caso in cui chi ci è vicino, familiare o amico oppure collega di lavoro, può vivere un momento di difficoltà in cui chiede il nostro sostegno.
In tale evenienza si producono quei mutamenti di atteggiamenti e linguaggi che distinguono la relazione di aiuto evidenziandone la dimensione empatica o simpatica.
“In famiglia non si parla più, si litiga soltanto…”, si lamenta il marito o la moglie, chiacchierando con l’amico/a.
“Con i miei genitori non serve a niente ragionare, tanto non capiscono…”, accusa il ragazzo o la ragazza, parlando, a scuola, all’insegnante.
“E’ inutile che ne discutiamo, non mi puoi comprendere. Non hai il mio problema…”, dice l’impiegato al collega, durante una pausa di lavoro.
“Non trovo lavoro…sono proprio sfortunato”, afferma sconfortato il disoccupato, rivolgendosi all’Operatore sociale.
Certo l’elenco dei frammenti di comunicazione che segnalano che si è in presenza di una relazione di aiuto potrebbe proseguire ancora…
Questi pochi esempi, comunque, sono sufficienti a farci ipotizzare reazioni, da parte di chi è in ascolto, fondate sulla simpatia o sull’empatia.
“E’ vero, oggi in famiglia è sempre più difficile discutere con serenità.
Ti devi impegnare di più, vedrai che prima o poi le cose cambieranno “, ribatte l’amico/a al marito o alla moglie del primo esempio.
“Il mestiere di genitori è il più difficile al mondo…Si è sempre preoccupati per i propri figli…”, aggiunge l’insegnante al lamento del ragazzo/a del secondo esempio.
“Come fai a saperlo, se prima non me ne parli?”, chiede il collega del terzo esempio.
“Oggi trovare lavoro è difficile per tutti. Impegnati di più”, afferma l’Operatore sociale.
Queste ipotetiche reazioni evidenziano tutte un elemento comune: la lettura dell’esperienza narrata risulta fondata essenzialmente sulle convinzioni di chi ascolta, a prescindere da qualsiasi verifica della loro attinenza alla storia dell’altro.
Le chiavi di lettura delle quattro esperienze narrate sono: si può comunicare se ci si impegna, è vero che i genitori non capiscono i figli perché sono troppo preoccupati per loro, è vero che non possiamo capire ciò che non abbiamo vissuto in prima persona, se ci si impegna si può trovare lavoro ( anche se è difficile per tutti ) e dare un calcio alla sfortuna…
Nulla di illogico, certo, ma che non hanno, almeno in questa fase, alcuna attinenza all’esperienza narrata …
Sono, cioè, convinzioni di chi ascolta appiccicate al messaggio ricevuto.
Questi esempi indicano circostanze in cui l’ascolto dell’altro è fondato sulla simpatia, vale a dire sul tentativo di ricondurre il complesso emotivo/ cognitivo vissuto dall’interlocutore entro la cornice delle emozioni e convinzioni del destinatario del lamento / sfogo / richiesta.
Non si intende dire che l’amico o l’insegnante o il collega oppure l’Operatore sociale non siano sinceramente interessati al disagio del marito/ moglie, del ragazzo/a e del collega e che non vogliano concretamente dar loro una mano per risolvere.
Anzi, alcune persone cercano di interpretare e di spiegare la sofferenza altrui quanto più ne sono coinvolti, quasi a praticare una sorta di esorcismo attraverso l’utilizzo della ragione .
Altre, per un complesso meccanismo intrapsichico, vivono la simpatia non solo soffrendo con l’altro ma sostituendosi all’altro, come a volere interrompere il suo disagio assumendoselo in prima persona.
In ogni caso, qualsiasi sia la meta, la simpatia, così intesa, produce sofferenza ma senza comprensione e, di conseguenza, lasciando inalterato lo stato delle cose.
Insomma si soffre in due un problema che prima era vissuto da uno solo.
Di fatto la simpatia, a volte meccanismo inconsapevole messo in moto per proteggersi dalle emozioni, produce un ancor più intricato ed intenso groviglio emotivo.
“Che cosa vi porta a litigare, al posto di discutere?”, domanda l’amico al marito / moglie.
“In che modo i tuoi genitori ti dimostrano che non ti capiscono?” o ” Che dovrebbero fare i tuoi genitori, secondo te, per dimostrarti che ti capiscono?” o ancora ” Quando, ti sentiresti capito?”, chiede l’insegnante al ragazzo/a.
“Proprio perché non vivo il tuo stesso problema me ne puoi parlare per aiutarmi a capire?” oppure ”
Forse non posso fare niente per te ma parlarmene potrebbe darti una mano a intendere meglio la situazione e trovare una soluzione”, dice il collega.
“Cosa intendi dire quando affermi di essere sfortunato? “, chiede l’Operatore sociale al disoccupato.
Come è ben evidente, abbiamo ora ipotizzato reazioni diverse, per contenuti / forma/ obiettivi, alle medesime circostanze illustrate nei precedenti esempi.
Anche queste risposte presentano fattori comuni: la sospensione del giudizio su quanto ascoltato, l’interruzione, almeno momentanea, del riferimento alla propria esperienza, il tentativo di comprendere al posto di interpretare e spiegare.
In questi casi l’ascolto dell’altro è fondato sull’empatia ovvero sul riconoscimento dell’alterità di cui è portatore l’interlocutore e che segna qualsiasi individuo che abbia, appunto, compiuto il processo di individualizzazione.
Amico, insegnante, collega, Operatore adesso soffrono, o almeno questo è la loro meta, così come soffrono coloro che narrano, non si accollano solo il disagio altrui, non tendono a vivere in due il medesimo problema così com’è ma puntano a favorire, nell’altro, un nuovo punto di vista rispetto al dilemma.
Non impongono il proprio punto di vista, sia inteso, ma propongono di elaborare, semmai insieme, una nuova ottica.
Insomma l’empatia produce sofferenza, sì, ma che è sofferenza utile.