Quando cadono le maschere

La gente non ama i falsoni, non si fida di loro.
Nel mondo degli affari è abbastanza facile mettersi una maschera, o anche più d’una.
Ci sono persone che utilizzano, nelle varie occasioni, le stesse parole, le stesse sei o sette frasi, è come se parlassero a dei manichini, invece che a gente in carne ed ossa; hanno un repertorio di frasi standard da rivolgersi a qualunque tipo di persona incontrino.
Ci sarà un momento in cui vorremo sentire cosa hanno da dire, aldilà delle chiacchiere.

Voler sapere chi è l’altra persona, cercarne il “vero io”, significa avere la convinzione che le situazioni d’affari sono sempre situazioni di persone.

Perchè dire ‘Grazie’ migliora le relazioni interpersonali

La gratitudine è onnipresente nella vita sociale.
Le persona ricevono doni, aiuto, gentilezze, supporto, e favori dagli altri, e per questo si sentono grati.
I sentimenti di gratitudine sono associati a diversi effetti benefici: danno la sensazione di aver vissuto un’esperienza positiva, aiutano le persone ad affrontare circostanze stressanti, rinforzano le relazioni interpersonali.
Se si conosce abbastanza degli effetti della gratitudine sulla persona che la prova, poco è stato indagato di quanto la sua espressione influenzi colui che ha dato aiuto.
In fondo la gratitudine è per definizione un’emozione sociale prodotte in relazioni sociali e per questo sarebbe importante indagare come influenza entrambi i componenti della relazione.
E’ stato comunque osservato che l’espressione di gratitudine motiva a compiere comportamenti prosociali, ma perchè?
Attraverso quali processi psicologici, il venire ringraziati porta ad un livello ancora più alto di aiuto?
Adam M. Grant e Francesca Gino (uno dei nostri cervelli fuggiti), nel loro articolo ‘A Little Thanks Goes a Long Way: Explaining Why Gratitude Expressions Motivate Prosocial Behavior’, affrontano questa domanda utilizzando la classica distinzione fra agency e communion.
Le persone vogliono sperimentare sia un sentimento di agency, ovvero sentirsi efficaci, competenti e capaci, sia un sentimento di communion, cioè essere connessi e valutati positivamente dagli altri.
Attraverso quattro esperimenti gli autori hanno indagato come meccanismi di agency e di communion influenzano i comportamenti di chi viene “ringraziato”: se si guarda da una prospettiva di agency, l’espressione della gratitudine può rinforzare i sentimenti di autoefficacia di chi ha prestato aiuto, spingendolo a compiere ulteriori comportamenti prosociali per ridurre l’incertezza sul fatto che possano effettivamente aiutare in modo efficace.
Dall’altra parte, se ci poniamo nella prospettiva della communion, l’espressione della gratitudine fa sperimentare un sentimento di apprezzamento sociale, ci si sente positivamente valutati, e questo motiva a compiere altre azioni prosociali per ridurre l’incertezza riguardo al fatto che il proprio aiuto sia apprezzato effettivamente dai beneficiari.
Nel primo esperimento ai soggetti era chiesto di aiutare uno studente a correggere e migliorare una lettera di presentazione per un lavoro, una volta fatto ricevevano un messaggio dallo studente che poteva essere o neutrale o di gratitudine, e gli veniva chiesto ulteriore aiuto per un altra lettera di presentazione: i risultati evidenziano che l’espressione di gratitudine motiva il destinatario a ulteriori comportamenti prosociali, e questo è mediato dalla communion, ovvero chi fornisce aiuto si sentirà portato a fornirne ulteriormente se il beneficiario gli dimostra gratitudine perchè sperimenta un sentimento di apprezzamento sociale.
Nei successivi tre esperimenti è stato inoltre confermato che sperimentare gratitudine da parte di qualcuno che si è aiutato motiva a comportamenti prosociali anche nei confronti di terze persone.
Oltre a questo i comportamenti prosociali motivati dall’aver sperimentato gratitudine sembrano mantenersi anche nel tempo: per esempio è più facile che chi è stato “ringraziato” presti aiuto una seconda volta se gli viene chiesto, o anche che aiuti qualcuno senza che gli venga domandato.
Anche se negli esperimenti lo sperimentare la gratitudine di chi si è aiutato aumenta sia il proprio sentimento di autoefficacia sia il sentimento di essere socialmente apprezzati, solo la communion spiega l’effetto della gratitudine sui comportamenti prosociali:
Questi risultati suggeriscono che quando chi ha prestato aiuto è ringraziato per il proprio impegno, è il sentimento di essere socialmente valorizzato, più che i sentimenti di competenza e autoefficacia, ad essere fondamentale nell’incoraggiare a fornire maggiore aiuto in futuro.
Questa ricerca dà evidenza di una cosa molto semplice: essendo la gratitudine un’emozione sociale, originata nella relazione, anche i suoi effetti sono sociali, e passano attraverso meccanismi sociali.
Essere ringraziati per il proprio aiuto ci spinge ad aiutare di più, forse perchè ci rassicura del fatto che il nostro aiuto è veramente apprezzato: è un’opinione molto comune in una cultura dell’individualismo pensare che l’accettare un aiuto sia un segno di fallimento, di non essere in grado di farcela da soli; essere ringraziati ci mostra invece che le altre persone accettano il nostro aiuto e lo apprezzano.
E’ vero, e gli autori lo scrivono, che uno dei limiti della ricerca è che esamina solo situazioni in cui non c’è nessun costo per chi dà aiuto, chi aiuta lo studente nel redigere una lettera di presentazione non ha speso molto più che il suo tempo, la situazione è probabilmente diversa se chi dovrebbe prestare aiuto deve sobbarcarsi dei costi.
Sembra comunque che dire un semplice grazie sia non solo segno buona educazione, ma abbia un importante ruolo psicologico.

L’articolo originale è di Adam M. Grant e Francesca Gino: ‘A Little Thanks Goes a Long Way: Explaining Why Gratitude Expressions Motivate Prosocial Behavior‘.

L’artista che è in noi

La nostra parte creativa è spesso la più trascurata.
Riconoscere e nutrire l’artista dentro di noi può trasformarci la vita.
Un percorso, talvolta minato dalla sfiducia, che conduce alla gioia dei sogni che diventano realtà.
Quasi tutti i bambini piccoli sono intensamente creativi.
Nel senso di originali, concentrati, attenti e giocosi nelle loro attività espressive.
Crescendo, diminuisce drammaticamente il tempo e lo spazio dedicato all’arte, sino ad arrivare all’età adulta, quando non si ritrova più la capacità e l’entusiasmo di creare.
Tranne rare eccezioni, chi non fa un lavoro creativo dedica poco spazio al proprio artista interno: non produce denaro, non ha diritto di esprimersi, e alla fine ne è anche incapace.
Eppure si sente la mancanza di un canale libero in cui far fluire i sogni, emerge come invidia verso qualcuno (magari un regista, un’attrice, o una scrittrice), oppure come una sensazione di impoverimento, di schiacciamento in un ruolo di esecutori coatti di servizi.
Ma il pensiero di diventare creatori, in qualche misura, implica subito l’idea di non averne il diritto, il talento, la possibilità.
Il vero killer è il giudizio, la critica, l’auto-mortificazione, che azzera lo slancio.
Individuare i nemici della creatività serve a tenerli a bada. Investire sul proprio artista interiore significa ignorare le voci che ribadiscono che non abbiamo il tempo, ne’ i soldi, che ormai è tardi, che non saremo mai capaci, ecc.
Ci vuole uno spazio protetto nella nostra mente e nella nostra giornata in cui ascoltare e nutrire la parte creativa; tutti ne possediamo una, si tratta di liberare un canale, sbloccare un flusso che poi diventa spontaneo e si esprime nel modo che ciascuno sceglie, o che gli è congeniale: scrivere, cucinare, dipingere o cucire.
Ci vuole amorevolezza e fiducia per passare all’azione: iscriversi ad un corso, prendere la penna e usarla ogni giorno, trovarsi uno studio.
Il coraggio di superare mille attacchi interni ed esterni, per sentire in cambio la gioia di sorprendersi, di vedere dileguare limiti imposti

La libertà di sentirsi liberi

La libertà va conquistata partendo da una corretta comprensione dei meccanismi che determinano il nostro comportamento e imparando a decidere, momento per momento, da quali spinte interiori lasciar guidare il nostro pensiero e le nostre azioni.
La nostra mente si avvale molto del processo di automatismo, fondamentale per la sopravvivenza, per cui un’informazione, una volta acquisita, viene interiorizzata e considerata valida per tutte le situazioni simili.
Questa automatizzazione dell’apprendimento, se non viene diretta consapevolmente, agisce anche creando correlazioni tra persone e situazioni, non più necessariamente attuali.
Diventiamo così prigionieri di credenze e valori del passato che non sono più veri per noi, ma che continuano a dirigere il nostro comportamento perché fanno ormai parte dei dati attivi nel “sistema operativo”, se così possiamo dire.
Ci si impedisce  di modificare e sostituire questi dati, una volta che questi si rivelano obsoleti, e il lavoro che ognuno deve fare è proprio quello di aggiornare e verificare, alla luce dell’esperienza e delle informazioni disponibili attualmente, tutte quelle reazioni automatiche che scattano nei confronti di cose, persone e convinzioni. Si tratta di fare un accurato esame di tutte quelle che sono le credenze e le convinzioni alla base del nostro comportamento, mano a mano che si presentano in situazioni concrete della vita quotidiana, per valutare quali sono utili e quali sono inutili.
Fermarsi automaticamente quando il semaforo diventa rosso è molto utile, ma trattare male, oggi, chi ha le lentiggini perché il nostro compagno di banco dispettoso, di vent’anni fa, le aveva, non è più molto utile.
L’obiettivo è quello di recuperare la capacità di affrontare la realtà per quello che è, ogni istante di nuovo, e non per quello che le registrazioni del passato suggeriscono che sia. Questo è il punto di partenza per iniziare a conoscere che cosa è la libertà.
Come esercitarsi?
Diffidare dei luoghi comuni
Capita spesso di assistere, in piccoli e in grandi gruppi sociali, a vere e proprie epidemie di baggianate che finiscono poi con l’essere confuse con la realtà. La pigrizia mentale è il terreno fertile sul quale attecchiscono informazioni fasulle, superficiali, tendenziose, messe in circolazione per malafede, per caso o per sbaglio.
Riconoscere i pregiudizi
Abbiamo tutti idee che non sappiamo di avere e in cui, magari, non ci riconosciamo neppure. Le abbiamo assorbite con l’educazione, attraverso i media e la vita sociale. E’ normale che questo succeda, ma è importante accorgersi di quando emergono questo tipo di pensieri, per non lasciarsi guidare “alla cieca” da direttive formulate da altri.
Non generalizzare
La realtà è moto più varia e complessa di quanto ogni banalizzazione vorrebbe far sembrare. Guardare il mondo attraverso schemi generali adattabili a ogni situazione non permetterà mai di cogliere l’unicità di ogni singolo istante e di offrire una risposta ogni volta nuova e opportuna.
Riflettere prima di agire
Non è una cattiva idea quella di contare fino a dieci prima di rispondere a un forte stimolo emotivo. “Agire” e non “reagire” è la parola d’ordine per non essere schiavi dei propri impulsi, ma per dirigere consapevolmente le proprie energie nella direzione veramente desiderata.
Superare i timori ingiustificati
Anche le emozioni vengono associate a esperienze del passato. Con uno sforzo di volontà per mettersi alla prova nei confronti di timori ingiustificati è possibile instaurare un diverso tipo di associazione tra qualche cosa che nel passato abbiamo temuto e nel presente possiamo anche trovare innocuo o addirittura piacevole.
Vivere il presente
Sviluppare libertà di giudizio e d’azione permette di ricollegare la propria esperienza all’istante presente, diventando capaci di apprezzare e assaporare quanto la vita propone e aprendosi a emozioni sempre nuove.
Avere fiducia nel futuro
Quando si diventa consapevoli della possibilità e della responsabilità individuali nei confronti della realtà circostante non si rischia di farsi abbattere dl senso di inutilità causata dal fatalismo e si possono investire le proprie energie per dare un contributo concreto alla costruzione di un futuro degno di essere vissuto.

Desiderare non sempre è volere

Vi sono persone che a parole affermano di desiderare una certa cosa, ma poi nell’atto pratico, fanno esattamente il contrario.
In oltre 30 anni di lavoro ho conosciuto manager, venditori top, professionisti, ecc., che non facevano altro che lamentarsi della loro posizione professionale e della loro retribuzione economica.
Vi sono molte persone che  la pensano esattamente come loro, non amano il proprio lavoro e desiderano ardentemente una nuova posizione, ma, nonostante gli stessi apparenti obiettivi, le azioni per concretizzarli, non sono uguali.
Ad esempio c’è chi porta con sé qualche libro da leggere, o da studiare, durante la pausa pranzo, e c’è colui per cui la pausa pranzo (così come il tempo libero) è sacra.
Nulla da obiettare, ma due comportamenti diversi daranno vita a risultati diversi . . . dipende da cosa si desidera veramente e da cosa ci fa sentire centrati e allineati con la nostra natura.
Perché ciò che si desidera abbia qualche possibilità di realizzarsi occorre porre in essere azioni coerenti.
Ho conosciuto manager stanchi della vita da “business man” abbandonare tutto dalla sera alla mattina, per andare a vivere in un posto sperduto in mezzo alla natura, piuttosto che aprire un music pub o dedicarsi ad attività manuali.
Conosco manager pronti a parole a lasciare tutto, ma che lasciano prendere polvere alla propria valigia riposta accuratamente sopra un armadio, per la serie “oggi no, ma domani parto . . . .”
Un conoscente che fa il personal trainer, con uno di quei fisici da paura, da adolescente aveva problemi di perso, che cercò di superare, senza grandi risultati, grazie ad un dietologo.
Egli racconta che in quel periodo non trovava necessario perdere del peso, ne tanto meno mostrava interesse, alla sua salute o alle conseguenze fisiche e sociali che avrebbe subito nel corso degli anni.
Il desiderio di cambiare nel tempo divenne talmente tanto che le azioni, per concretizzare tale cambiamento furono quasi inevitabili.
Oggi, ascolta le storie di tante persone che vorrebbero modellare il proprio corpo, ma oltre il semplice desiderare, non vede nei loro comportamenti nessuna strategia (volontà) per ottenere risultati degni di nota.
Come ama dire “iscriversi a una palestra o un centro sportivo, non basta, bisogna anche sapere cosa fare quando stiamo li dentro, ma cosa più importante capire perché lo stiamo facendo.
In geometria si dice che una retta è costituita da due punti.
Nella costruzione di un obiettivo, possiamo adottare lo stesso criterio.
Per costruire qualcosa, dobbiamo sapere da dove partiamo (primo punto) ma soprattutto, dove vogliamo arrivare (secondo punto).
Come si suol dire il “problema” è rappresentato dalla distanza tra la “situazione presente” e la “situazione desiderata”.
Maggiore è la distanza, maggiori dovranno essere l’impegno e le energie profuse.
Il semplice desiderare una cosa, non sempre equivale a volerla sul serio.
Un detto popolare recita: “Stesse azioni, stessi risultati!”
Se qualcosa non funziona, occorre cambiarla.
Continuare ad adottare una strategia che non sta portando nessun risultato equivale soltanto ad una semplice perdita di tempo (a volte anche di denaro!).
Dobbiamo ancora una volta ricordare che “Il semplice desiderare una cosa, non sempre equivale a volerla sul serio“.

Riscoprire se stessi

Riscoprirsi vuol dire ricordarsi della propria natura più autentica, quella che ci insegna a cogliere con curiosità e meraviglia la vita, e ci aiuta ad essere centrati e allineati con la nostra natura.
Ma da dove nasce ciò che ci fa accorgere che la nostra vita è nel mezzo di un flusso di energia?
E’ una gran bella domanda, e come possiamo imparare ad esserci, così da capire di che cosa abbiamo veramente bisogno, riscoprendo lo scopo vero della nostra vita?
Con il cambiamento sempre più rapido e con l’imprevedibilità crescente, le vecchie fonti di ispirazione sembrano inadatte a stimolare nuove idee, e insieme a esse la capacità di darci respiro, movimento e consapevolezza, permettendoci di ritrovare noi stessi.
La maggior parte delle persone diventa come schiava del proprio passato, ritenendo di non avere margini di autonomia nel disegnare la propria vita; queste persone limitano da sé la possibilità di essere “liberi”, prigioniere di credenze e valori del passato.
In una società che propende verso la scienza e la tecnologia, la persona ha bisogno di riacquistare un proprio valore.
Nella misura in cui acquisiamo dimestichezza con il nostro “spazio interno” fatto di emozioni, pensieri, fantasie, ricordi, desideri… impariamo a saper scegliere e a decidere come agire in ogni circostanza.
Potremmo anche trovare nuove associazioni nella nostra mente, nuove fantasie, figure che non avremmo mai immaginato.
Potremmo sentire degli odori, delle fragranze oppure i nostri occhi potrebbero fissarsi su una particolare brillantezza riflessa nella luce…
Quando attiviamo la nostra attenzione, la dimensione su ciò che siamo focalizzati cambia completamente, si espande all’infinito, possiamo andare avanti per giorni, mesi, anni, sempre scoprendo cose nuove.
Quando focalizziamo la nostra attenzione, tutto ci appare più semplice e chiaro.
Possiamo esprimerci in ogni attimo della nostra vita, attraverso le percezioni, i movimenti, le azioni, non fermandoci alla superficie, alle apparenze, ma andando in profondità, con il cuore.
Ciò che “creiamo” è semplicemente la scoperta di qualche cosa “che esiste già”, semplicemente abbiamo tolto le barriere che limitano le nostre percezioni.
Per essere “liberi” occorre essere consapevoli delle proprie scelte e della propria crescita e trasformazione, del proprio vivere il presente come unico e irripetibile, per non avere un passato di rimpianti e per non rincorrere ostinatamente il futuro.