10 presupposti per una negoziazione efficace

La negoziazione è una componente essenziale della vita in un’azienda, in particolare nell’ambito della collaborazione.
Infatti, ricorriamo alla negoziazione ogni volta che tentiamo di influenzare gli altri, di proporre delle idee, di stabilire o migliorare delle relazioni.
Negoziare senza preparazione equivale a rinunciare a trattare ad armi pari con il conseguente rischio di trasferire il potere negoziale quasi interamente nelle mani dell’interlocutore.
Ma cosa occorre fare per affrontare una negoziazione d’affari con la necessaria preparazione?
Ecco un elenco di 6 aree critiche da analizzare prima di una trattativa:
Gli obiettivi: stabilite cosa volete ottenere, l’importanza dei diversi obiettivi e quale tipo di accordo vi soddisferebbe.
Provate anche a immaginare i possibili obiettivi dei vostri interlocutori e quelle che possono essere le loro priorità.
L’oggetto dello scambio: perché si possa negoziare occorre che entrambe le parti abbiano qualcosa da scambiare.
Cosa potete mettere sul tavolo di trattativa che sia d’interesse per il vostro interlocutore?
Cosa potrebbe essere messo sul tavolo che sia d’interesse per voi?
Cosa siete preparati a concedere, in caso di richiesta?
Cosa potreste chiedere?
Il potere negoziale: domandatevi dove si collochi il reale equilibrio negoziale nel vostro caso.
Chi ha maggior potere tra le due parti?
Il potere è reale o si tratta soltanto di una percezione?
Chi rischia maggiormente in caso non venga raggiunto un accordo?
Chi dispone di un maggiore controllo delle risorse?
Il rapporto tra le parti: qual è la storia del rapporto tra i due interlocutori?
E’ possibile che fatti esterni possano influenzare la trattativa?
Esistono rapporti con altri soggetti che potrebbero influenzare indirettamente la negoziazione?
In quale modo possono essere affrontati questi problemi?
Le possibili alternative: nel caso non si riesca a giungere ad un accordo, esistono delle soluzioni alternative?
E’ possibile che la mancanza di un accordo pregiudichi opportunità future? Quale sarebbe la conseguenza del mancato raggiungimento di un accordo per voi?
E per il vostro interlocutore?
Le attese: quali risultati si aspetteranno da questa negoziazione le parti coinvolte?
Quali risultati sono stati ottenuti in passato?
Esistono dei precedenti che potrebbero influenzare l’esito della trattativa?
La preparazione è soltanto il primo passo per poter affrontare una negoziazione con metodo.
Occorrono poi altri strumenti che ci consentano di verificare le nostre ipotesi iniziali.
L’obiettivo è di riuscire a formulare proposte che possano soddisfare al meglio sia le nostre esigenze che quelle del nostro interlocutore.

Ecco 10 suggerimenti che possono aiutarti a diventare un negoziatore efficace e sicuro di sé.

  1. Preparazione: non partecipare a una negoziazione senza esserti preparato prima, poiché di solito il più preparato è quello che ottiene i risultati migliori.
    Meglio conosci i punti di forza e di debolezza della tua controparte, maggiori sono le tue possibilità di ottenere ciò che desideri.
  2. Esercizio e fiducia in se stessi: l’arte della persuasione implica un approccio razionale e ragionevole.
    Esercitati ogni volta che ne hai l’opportunità: la maggior parte delle persone esita a negoziare perché non è sicura di sé.
    Sviluppa questa caratteristica negoziando più spesso.
  3. Stile flessibile: tipi diversi di negoziazione richiedono stili diversi.
    Il segreto della negoziazione è quindi nella preparazione, nella fiducia in se stessi, nella capacità di persuadere e in uno stile flessibile.
  4. Stabilisci ciò che vuoi ottenere: definisci le tue aspettative sin dall’inizio per evitare confusioni quando ti troverai in fase di negoziazione.
  5. Separa le persone dal problema: i negoziatori sono esseri umani, con le proprie percezioni ed emozioni.
    Anche l’altra parte vuole ottenere un risultato dalla negoziazione; pertanto, è opportuno prendere in considerazione ogni posizione.
    La tecnica ottimale consiste nel non attaccare mai, ma di rimanere obiettivi.
  6. Ascolta e reagisci: evita di interrompere quando l’altro negoziatore ha la parola.
    Quando parli, è utile utilizzare frasi che iniziano con l’espressione “La mia impressione è…”.
  7. Piano B e piano C: per evitare di scendere a compromessi non calcolati, è opportuno avere un piano di riserva pratico nel caso il primo non abbia successo.
  8. Concentrati sugli interessi reciproci: un negoziatore efficace tiene a mente che è possibile che l’altra parte stia cercando di ottenere il suo stesso risultato ma stia utilizzando tattiche o strategie di negoziazione diverse.
  9. Vantaggi per tutti: un negoziatore efficace cerca di trovare una soluzione che offra benefici a entrambe le parti.
    Si tratta di trovare un compromesso in cui tutte le parti ottengono ciò che vogliono grazie a un accordo reciprocamente vantaggioso.
  10. Nero su bianco: se vuoi consolidare un accordo, mettilo per iscritto per garantire la responsabilità di tutte le parti coinvolte.

Un negoziatore di successo è calmo e controllato; illustra le proprie posizioni in modo logico e ragionevole ma allo stesso tempo non è uno sprovveduto.

Piccolo imprenditore e venditori

Facciamo l’esempio di un piccolo imprenditore che ha costruito il suo business dal niente gestendo, praticamente, tutto da solo.
Quest’uomo per molti anni ha costruito le relazioni con i suoi clienti giorno dopo giorno, si può dire che li conosca tutti.
Spesso questi clienti sono abituati a parlare solo con lui, hanno visto la sua Azienda crescere e per loro Lui è l’Azienda.
Poi, con il passare del tempo ha inserito degli Agenti, ha allargato il suo giro d’affari, il numero dei clienti è cresciuto enormemente, per la parte amministrativa ha assunto un Ragioniere.
E’ arrivato un sistema operativo che ha dovuto imparare a capire e a usare, elaborando in excel le statistiche di vendita e di acquisto, le comparazioni di fatturato, le proiezioni sull’ordinato e sul flusso di cassa, ecc., automatizzando la gestione del magazzino (codici a barre e di lettori ottici).
Per il nostro imprenditore delegare l’Amministrazione, il sistema informativo, e il magazzino è una necessità, ma delegherà la parte Commerciale ?
L’ha sempre gestita lui, in prima persona, e questo gli piace, così come ama gestire gli Agenti forte del buon senso e dell’intuito affinati in anni di esperienza, della sua innata capacità di capire la gente.
Se prova a delegare lo fa con un suo dipendente fidato che, nella migliore delle ipotesi, non essendo preparato e formato, e non avendo alcun potere effettivo, finirà per scimmiottarlo, con la conseguenza di venire costantemente scavalcato dagli agenti, ingenerando nel nostro imprenditore che il “giovanotto” non ha la stoffa.
A questo si aggiunga che per molti piccoli imprenditori il mestiere di venditore sia un mestiere senza né arte, né parte, per cui risorse quali la formazione, le riunioni, un direttore vendite, incentivazioni non hanno sede nella loro testa., ritenendo più che abbondanti le quattro nozioni che servono, il minimo indispensabile, catalogo e listino e poi via – camminare – … sarà il campo a insegnare come è sempre successo.
Poi nei momenti di crisi tutti fanno i salti mortali per inventarsi nuove vendite, e si chiedono perché si faccia fatica  a trovare dei venditori veramente in gamba, che lavorano con coscienza, e che portano nuovi clienti…….
E allora? Il venditore è uno senza arte né parte oppure uno che ti permette di alimentare il tuo business e la tua azienda?
E’ un fallito oppure è un professionista?
Che cosa desideriamo fare del settore commerciale?
Un porto di mare dove passano decine di persone impreparate, frustrate, incattivite oppure una squadra esperta, motivata, produttiva che resta con l’azienda perché rispetta il rispetto che l’azienda ha per lei?

La complessità del nostro essere: prima che adulti, siamo stati bambini

Parlare di relazioni quotidiane vuol dire parlare di quel immenso campo di eventi nel quale ognuno di noi vive ogni giorno.
Ma cos’è una relazione?
Siamo abituati a pensare che una relazione è un rapporto fra noi e nostro padre, i nostri fratelli, i nostri figli, i nostri amici, i colleghi, ecc.
Non pensiamo mai, o quasi mai, che ne esiste un’altra fondamentale nella nostra vita: la relazione con noi stessi!
La famosa affermazione di W. Allen: “Mi vengono in mente dei pensieri coi quali non sono d’accordo”sottolinea bene l’esistenza di questa importante relazione.
Con cosa noi siamo in relazione?
Con il nostro mondo interno, un mondo fatto di sentimenti, emozioni, paure, fantasie, ricordi, vissuti di sé e vissuti dell’altro; idee anticipatorie di quel che sta per accadere, idee anticipatorie di quello che l’altro sta per dire o fare, ecc.
Un mondo interno ricco, complesso e assolutamente sotterraneo, a cui per lo più non siamo abituati a prestare orecchio e che però, interferendo nella percezione di noi stessi e degli altri, determina fortemente ogni nostro singolo atto quotidiano, il nostro comportamento e il nostro agire.
In realtà, questo nostro mondo interno, non è del tutto sconosciuto e incomprensibile, semplicemente non siamo abituati a dargli peso, né a prenderlo in considerazione.
Ci sono però dei momenti nei quali qualche aspetto di questo mondo cerca di venire allo scoperto, cerca di emergere e di imporsi.
E’ il caso, ad esempio, dei lapsus verbali, nei quali diciamo qualcosa che non “volevamo dire” e che rivela l’esistenza di una parte di noi “nascosta”.
Una signora, raccontando di un litigio col proprio marito, terminò il racconto affermando: “mi ha detto che non mi sopportava più e furiosamente ha aperto la finestra e se n’è andato”.
Ovviamente, intendeva dire “ha aperto la porta”!
Non è stato difficile per la signora cogliere divertita che una parte di sé avrebbe desiderato “buttare dalla finestra” suo marito.
Anche la “dimenticanza” ci può svelare d’improvviso che quella cosa a cui noi credevamo di tenere tanto, per un altro aspetto di noi, era del tutto odiosa o molto temuta.
E ancora, ci può capitare di fare una promessa e sentire di farla controvoglia.
Questo può nascere da quel non sapere dire di no che fonda le sue radici nell’idea che di fronte a un “no” l’altro non possa che scostarsi deluso senza più volerci bene; oppure dall’idea che l’altro si arrabbi e si vendichi; oppure ancora in quella pretesa di essere onnipotente, di non avere limiti e di poter far sempre tutto per tutti.
Allo stesso modo, un rifiuto troppo sbrigativo può nascere da un’abitudine antica, nata per difendersi da richieste soffocanti.
Quindi, a seconda di come gli altri sono rappresentati dentro di noi, gli altri giocano, per così dire, un ruolo che noi gli facciamo recitare.
Come si è formato questo mondo interno dentro di noi?
E’ il risultato delle nostre esperienze, di come le abbiamo vissute, del significato che hanno assunto per noi, dai timori e paure provate, da come ce ne siamo difesi e da come poi abbiamo introiettato tutto questo, soprattutto durante l’infanzia.
E’ necessario, quindi, fare un salto indietro nella storia della nostra evoluzione.
Ogni adulto porta dentro di sé il bambino, il fanciullo e l’adolescente che è stato.
Questo bambino, specie se infelice, impaurito ed insicuro, può ostacolare l’adulto.
Siamo abituati a pensare ai bambini come a degli esseri “beati, felici e senza problemi”.
Niente di più falso!
La crescita comporta una moltitudine di problemi e difficoltà infinite e, se va bene, con una certa sofferenza.
Cerchiamo di capire più profondamente queste difficoltà soffermandoci su alcune delle tappe fondamentali nella formazione della persona.
Importantissimo, è come un bambino si è sentito quando era molto piccolo e indifeso, ed aveva bisogno di tutto per poter sopravvivere.
Sto parlando dei primi mesi di vita.
Se in questa fase la madre è in grado di sintonizzarsi sui bisogni del bambino, di essere attenta e di soccorrerlo in ogni momento di bisogno, sapendo anche discriminare il tipo di bisogno (fame, bisogno di contatto, dolori somatici, ecc), quel bambino crescendo avrà una sufficiente fiducia in sé e nel mondo ed un buon senso di sicurezza che gli permetterà di affrontare, nelle migliori condizioni, le successive tappe dell’evoluzione.
E’, infatti, proprio in questo periodo che nascono e si formano il “sentimento di fiducia” e il “sentimento di sicurezza” di base, che accompagneranno tutto il percorso della vita.
L’assenza o la carenza di questi sentimenti possono lasciare dei danni, più o meno gravi, che ostacoleranno la sua crescita.
Un esempio: una coppia di giovani genitori, avendo l’abitazione proprio sopra al ristorante nel quale lavoravano, avevano creduto possibile conciliare il lavoro con l’accudimento del loro figlio appena nato.
La madre saliva in casa ogni tre ore, cioè negli orari nei quali doveva allattarlo.
Dopo qualche tempo il bambino non dava più segni di vita: non piangeva, non si attaccava al seno, non mangiava.
Si era completamente ritirato da un mondo troppo spaventoso per lui in assenza di quella protezione di cui aveva bisogno.
Viceversa, se la madre accudisce, protegge e guarda il proprio bambino con amore, quell’amore il bambino lo rivolge in sé stesso.
In ogni tappa della vita, il bambino deve affrontare un nuovo problema, deve acquisire una nuova capacità e lo può fare solo se ha un valido aiuto nei genitori e se, nello stesso tempo, gradualmente può sperimentare in autonomia la nuova capacità che sta cercando di costruire.
In altre parole, il compito dei genitori non è più solo quello di proteggere il bambino ma anche quello di lasciarlo libero di sperimentare movimenti di autonomia fornendogli, tuttavia, una presenza rassicurante.
I “segnali di sicurezza” lo faranno “provare” mentre i “segnali di pericolo” lo faranno “arretrare”.
Per il bambino, ad esempio, l’acquisizione della deambulazione non è una cosa facile.
Ma una madre apprensiva che lo tiene in braccio per il timore che cada non gli è certo d’aiuto.
Anche il compito dei genitori, quindi, è molto difficile perché dovrebbero sempre essere in grado di rendersi conto di qual è il momento del soccorso e dell’accudimento e qual è il momento di lasciare andare il bambino perché provi.
Il problema dell’individuazione è il problema della maturazione del senso di sé, di una propria identità, che la persona costruisce a seconda della fiducia che riesce a sentire in se stesso in relazione a quanto ha sufficientemente risolto ogni problema che ha affrontato.
Tanto più i sentimenti di fiducia e sicurezza sono elevati, tanto più può sfidare il timore e l’ansia di buttarsi in una nuova esperienza, la quale a sua volta gli fornirà un senso di affermazione di sé e di autostima.
La presenza della mamma nella stanza è un segnale di sicurezza che permette al bambino di giocare, perché vi è un costante interscambio di segnali con la madre che gli fornisce un sentimento di benessere.
Se egli si accorge che la madre ha lasciato la stanza, immediatamente avvertirà un segnale di pericolo e sorgerà in lui un bisogno di aggrapparsi a lei.
In questo senso la relazione madre/bambino può considerarsi un soddisfacimento di desiderio.
Si percepisce, infatti, un bisogno quando il suo soddisfacimento viene ostacolato in qualche modo.
La presenza della madre nasconde cioè il bisogno stesso della madre.
Il bisogno non sorge, non c’è, è soggiacente e viene attivato dall’interruzione del soddisfacimento del bisogno di sicurezza e, conseguentemente, dal desiderio di avere la madre vicina.
Ciò che egli sente come perduto è la madre, ciò che è in effetti perduto non è soltanto la madre ma anche il benessere implicito nella relazione con lei.
Il bambino cerca di ottenere, tramite l’interazione con il suo ambiente e con il suo stesso sé, una specie di “nutrimento” che possiamo chiamare di affermazione e di rassicurazione, e questo bisogno di nutrimento deve essere soddisfatto costantemente per mantenere un livello sufficiente di sicurezza.
L’Io, che è l’organizzatore del nostro apparato psichico, è costretto a “prendere dei provvedimenti” che noi chiamiamo “difese” per mantenere costante questo livello, attraverso il controllo continuativo ed efficace sugli stimoli disturbanti provenienti dal mondo esterno e dal proprio mondo interno, facendo in modo che la sua esperienza coincida con le sue aspettative.
Il bambino non nasce, tuttavia, né biologicamente né psicologicamente, per opera della sola madre: ha anche un padre che sin dall’inizio è al centro di una vicenda triangolare, sia pure a vari livelli di relazione.
Nei primi mesi di vita del bambino, il compito del padre è quello di proteggere la coppia madre/bambino dalle richieste della realtà assumendole su di sé, permettendo alla madre di svolgere i suoi compiti di accudimento in un rapporto di simbiosi con il proprio figlio.
Il padre, comunque, riuscirà a realizzare questo compito non solo operando concretamente nel mondo della realtà, ma sospendendo dentro di sé, a favore del figlio, le richieste di cure e di attenzioni e accettando di restare temporaneamente escluso dal rapporto madre/bambino.
Molti uomini non sopportano questa esclusione e per soffrirne meno la rendono spesso categorica e definitiva, immergendosi nel lavoro o in attività che li tengono occupati fuori dalla vita familiare.
Trasformano cioè in “esclusione voluta” una iniziale esclusione subita.
Altri non accettano di fare temporaneamente da sfondo e si inseriscono a forza nella relazione madre/bambino rivaleggiando ora con la madre (cercando di far tutto e meglio di lei, criticando continuamente i suoi piccoli errori, ecc.), oppure con il bambino (si ammalano, si lamentano per piccoli disturbi, diventano più esigenti e bisognosi di attenzioni, ecc.).
L’uomo ha inoltre l’importante funzione di aiutare la madre a tollerare la separazione del parto e le permette poi di lasciarsi “divorare” dal bambino, sicura di poter essere reintegrata, di essere di nuovo riempita di energie affettive.
Tra le funzioni della madre c’è anche quella di “presentare” al bambino suo padre e di trasmettergli quella sicurezza che le deriva proprio dalla sua protezione.
Tra le funzioni del padre, una è molto importante per lo sviluppo del bambino: dopo la prima fase di rapporto simbiotico madre/bambino è necessaria la presenza reale del padre onde evitare il prolungarsi del rapporto a due che può portare il bambino ad una regressione invece che ad una progressiva evoluzione.
In altre parole, la seconda funzione del padre è quella di aiutare il bambino a separarsi dalla madre.
Inoltre, il bambino che copia il comportamento e i modi del padre (cioè si identifica) modifica la propria rappresentazione di sé attraverso il trasferimento di una parte dei sentimenti di ammirazione, di stima e di amore che ha verso il padre, su di sé.
Il processo di separazione-individuazione, come dicevo, è un problema che si presenta, a diversi livelli, per tutta la vita in quanto ogni persona è costantemente confrontata con situazioni che richiedono sempre nuovi processi di individuazione (l’entrata in università, l’inizio dell’attività lavorativa, la crisi di mezza età, la menopausa, la perdita dei propri cari, l’adattamento alla vecchiaia, e così via).
In ciascuno di questi momenti è necessario, per conseguire l’adattamento, abbandonare non soltanto modalità precedenti ma anche stati del sé che prima erano rassicuranti e soddisfacenti.
Il superamento della regressione ed il successivo movimento in avanti, sono inevitabilmente legati ad un certo grado di sofferenza, dovuta al dolore di dover rinunciare a stati ideali infantili del sé, in favore di ideali sempre più adattati alla realtà che si accompagnano anche alla rinuncia della dipendenza dalle figure genitoriali per l’ottenimento del benessere.
Un fenomeno attuale che riguarda gli adolescenti è proprio la difficoltà che hanno a separarsi dall’ambiente familiare.
Tra le molte difficoltà, un adolescente deve anche imparare a non sentirsi rigidamente obbligato a ripagare le prestazioni dei genitori a suo favore.
Se non riesce a liberarsi di ciò, non sarà in grado di liberare se stesso e di usare le sue potenzialità ed il suo impegno nei confronti della società e degli altri nuovi rapporti.
Alcune volte i genitori non lasciano questa libertà, a causa dei loro bisogni inconsapevoli non risolti.
Queste difficoltà di separazione possono spingere gli adolescenti ad adottare soluzioni inadeguate come, ad esempio, soccombere o ribellarsi violentemente (fughe, comportamenti ostili all’interno della famiglia, adesione a gruppi violenti che promettono una forza e un potere che essi non trovano in se stessi).
Significativo a questo proposito, il caso di una adolescente di 16 anni, la quale si era ritirata dalla scuola e dalle sue relazioni scolastiche e di quartiere.
La madre soffriva di una forma fobica che non le permetteva di uscire fuori di casa.
Il padre era un uomo estremamente geloso e possessivo ed ogni tentativo della moglie di sfidare i suoi timori e uscire di casa portavano ad un conflitto con il marito.
La figlia aveva quindi assunto il compito di soddisfare, da una parte, il bisogno della madre di avere compagnia e, dall’altra, il bisogno del padre di “spiare” e controllare la madre.
Non è difficile capire che in simili condizioni è davvero difficile crescere.
Ma c’è un altro elemento che riguarda la colpevolizzazione della separazione.
Una persona che ha successo nel suo sperimentarsi nelle difficoltà delle varie tappe, si individua e si separa dagli altri.
Se questa separazione è fonte di sentimenti di colpa “se fai così vuol dire che non mi vuoi più bene”, l’angoscia della perdita dell’altro che ne nasce, può costringere quella persona a interrompere la sua crescita.
Altro compito molto difficile per il bambino è quello di imparare a sopportare dentro di sé tutti quei conflitti che nascono dalla gelosia, dai propri sentimenti di rabbia, dai timori della perdita e dell’abbandono.
Tutti sentimenti che il bambino sperimenta in relazione ai propri genitori e fratelli e che sono necessari alla crescita e all’acquisizione della capacità di amare se stessi e gli altri.
Anche qui l’aiuto dei genitori è fondamentale.
Essi devono fargli da guida in queste vicende importantissime e molto intense.
Per crescere ed amare il bambino ha bisogno di sentire che, ad esempio, la sua rabbia non distrugge la madre, che i suoi sentimenti edipici (innamoramento per il genitore del sesso opposto) non gli fanno perdere l’amore dei genitori.
Per il bambino è una necessità quella di sentirsi in grado di “conquistare” la madre, oggetto del suo amore, e di rivaleggiare con proprio padre nei confronti del quale vuole vincere.
Se la madre ridicolizza il bambino, egli si sentirà umiliato e questa esperienza influenzerà negativamente le sue esperienze future (ad esempio si sentirà inadeguato ed incapace di conquistare una donna).
Parallelamente, ha bisogno di sentire che il padre non morirà per questo suo desiderio di “farlo fuori”, né morirà il suo amore per lui.
Molti sembrano riprodurre continuamente nella vita la rinuncia a questa vittoria e in generale l’impossibilità di fare conquiste e di vincere per forti sensi di colpa.
Non possono cioè avere successo e vincere nella vita non solo perché hanno paura di fallire ma perché hanno paura di vincere.
Anche la rivalità fra fratelli è fonte di sentimenti di infelicità quando la sensazione è che “l’altro” è il preferito, il più amato, il più stimato.
I sentimenti di esclusione, di non essere più il “reuccio” di casa, di profonda gelosia e rabbia, sono di solito i timori di un bambino alla nascita di un fratellino.
Le necessità del neonato e l’attenzione che di solito crea intorno a sé, saranno per lui un terreno fertile per sentirsi infelice e solo.
A volte accade anche che il secondo figlio viene affidato alle cure del primo.
Ciò comporta, oltre alla perdita della condizione di bambino, la nascita di sentimenti di incapacità e inadeguatezza.
Altro esempio ce lo fornisce una persona, la quale ha avuto durante l’infanzia la sensazione che la propria sorella fosse la preferita. Ancora oggi ha la certezza patologica che in ogni sua relazione arriverà, prima o poi, qualcuno che sarà preferito a lui.
Molti desideri sorgono all’interno della mente come risposte a forze che non sono, come abbiamo visto, solo istintuali.
Le più comuni sono l’ansia e gli affetti spiacevoli.
Tali desideri possono essere consci ma possono non esserlo.
Ad esempio, può esserci un desiderio di allontanare qualunque cosa venga identificata, consapevolmente o inconsapevolmente, come fonte di disagio, dolore o dispiacere, oppure il desiderio di scappare per poter evitare una situazione di pericolo.
Questi desideri, durante lo sviluppo, possono essere diventati inaccettabili e rimangono come impulsi di desiderio urgenti ma inconsci.
I desideri che rappresentano soluzioni o adattamenti passati, in primo luogo quelli dell’infanzia, riemergono costantemente ma possono essere respinti perché considerati inaccettabili dalla coscienza.
Tali desideri sono sentiti inadeguati nel presente ma ciò nonostante permangono.
Noi integriamo tali desideri passati, che riemergono nel presente, con desideri nuovi che si formano in conseguenza della socializzazione e di altri fattori.
Il bisogno di sperimentare aspetti di relazioni dei primi anni di vita ricorre e persiste costantemente, in particolare quando i nostri sentimenti di sicurezza sono minacciati, come costantemente accade.
Uno degli scopi principali del nostro apparato psichico è quello di proteggere la coscienza.
Ciò ha come risultato che il modo in cui gratifichiamo desideri inconsci può essere sottile e mascherato, proprio per il bisogno di proteggere la coscienza dal sperimentare direttamente il contenuto del desiderio inconscio.
Perciò possiamo ripetere relazioni passate in una forma mascherata.
Anche le difese, i capovolgimenti e le forme di mascheramento sono una conseguenza del modo in cui ripetiamo o cerchiamo di ripetere le prime relazioni di soddisfacimento del desiderio.
Nel nostro agire quotidiano esiste, quindi, un retroterra che non conosciamo ma che determina il nostro agire.
I rapporti, i desideri, le aspettative, le paure inconsce intervengono nelle scelte che noi facciamo del partner, dell’amico, di un lavoro e così via.
Il fatto di diventare consapevoli di un meccanismo abituale è, ovviamente, di grande aiuto.
Il mestiere di “bambino” non è facile, ma quello di “genitore” è ancora più difficile in quanto i genitori hanno a che fare anche con un altro bambino, quello dentro di loro, i cui problemi non risolti possono influire nei ruoli successivi di padre e di madre.
La normalità, vista come assenza di problemi, è solo un mito.
Al termine del percorso evolutivo in ognuno di noi è presente qualche ferita, qualche paura, qualche difesa di troppo, ecc.
Dalle relazioni primarie, dalle esperienze vissute con loro, dal modo in cui le abbiamo interpretate ed elaborate nel tempo, dal modo in cui abbiamo cercato di correggerle e di adattarci, nasce un nostro stile difensivo e un nostro stile relazionale con il quale osserviamo e viviamo nel mondo.
Abbiamo imparato a fidarci degli altri, oppure gli altri ci incutono sempre timore e diffidenza?
Siamo capaci di capire quali sono gli spazi privati in cui ognuno gestisce se stesso e quali sono gli spazi da mettere in comune con l’altro?
Riusciamo ad esprimere le nostre opinioni o non ci riusciamo perché temiamo la critica e la svalutazione?
Essere consapevoli di questo nostro stile personale ed unico, che tende a ripetersi e a condizionare tutte le nostre relazioni, è importante soprattutto quando le nostre relazioni ci rendono infelici.
Ma, perché si sceglie una persona che suscita in noi malessere ed infelicità?
Perché si ha bisogno di ritrovarsi in una esperienza nota e perciò rassicurante.
Ci sono coppie molto infelici ma che sono indissolubili e la sicurezza che può offrire la stabilità conta di più del piacere che a loro manca.
Ci sono persone che cambiano continuamente partners come prevenzione degli abbandoni: abbandonano la relazione anticipando il temuto abbandono da parte dell’altro.
Anche qui, il sentimento di sicurezza è ciò per cui si sceglie (la sicurezza di non essere abbandonati) a scapito del piacere di una, possibile ma non sicura, buona relazione.
La scelta di un partner non risponde dunque solo ad una scelta razionale, ma risponde sempre a dei motivi che hanno le loro origini nella vita emotiva della persona.
Un giovanotto ha sempre avuto un pessimo rapporto con il padre il quale, sin da bambino, era stato svalutante nei suoi confronti.
Nella sua vita ha sempre fatto le cose più difficili per dimostrare a suo padre di essere bravo.
Ancora oggi sente sempre il bisogno di dimostrare di essere bravo, capace e preciso.
Sul lavoro vive con un’ansia terribile per il timore di essere scoperto incapace e insoddisfacente e va in allarme anche per una sola parola o uno sguardo che gli incutono questo timore.
Protremmo quindi ridefinire il concetto di relazione affermando che è l’incontro fra due persone che entrano fra loro in contatto emotivo e le cui caratteristiche sono determinate da cosa ognuno cerca nell’altro.
Questi “incastri” fra due persone possono risultare spiacevoli perché tengono legati a situazioni di insuccesso, o di sfruttamento, o di umiliazione o di maltrattamento, ma hanno una funzione importante in quel preciso equilibrio che ognuno è riuscito a costruirsi tanto tempo fa e a cui non può rinunciare.
Le  persone lottano per raggiungere la serenità e cercano di ottenere una certa libertà dai loro schemi ripetitivi che procurano infelicità e dolore, cercando la possibilità di trovare la capacità ed il coraggio di uscirne e darsi una vita più soddisfacente.

Ho la stoffa per essere un manager?

Se vogliamo sviluppare le nostre competenze manageriali, non possiamo contentarci di guardare nello specchietto retrovisore: non basta studiare l’operato delle imprese e dei managers di successo; si deve anche anticipare il futuro e i prevedibili cambiamenti e mettere le aziende con tutto il loro personale in condizione di affrontare con successo i nuovi compiti che le attendono” (G.Morgan – professore di administration studies alla York University).
Questa frase è emblematica di una domanda che da oltre un ventennio attraversa il mondo delle organizzazioni ed in particolare i manager o coloro che aspirano a diventarlo.
Quali sono le competenze manageriali necessarie per gestire le organizzazioni oggi?
Esiste un “set di competenze manageriali “universali” o quanto meno trasversali a tutte le organizzazioni?”
Tutti gli approcci al tema della managerialità evidenziano un graduale tramonto del mito del “manager tutto di un pezzo”; al suo posto si sta sempre di più profilando un manager autorevole piuttosto che autoritario, dotato di intelligenza emotiva, capace di elaborare le contraddizioni, di dirigere coinvolgendo, di creare un clima empowering, di attraversare la complessità con uno sguardo al futuro.
Ne emerge che l’efficacia del manager viene sempre di più associata ad un sistema complesso di capacità personali, sociali, organizzative.
Queste sono spesso chiamate “competenze trasversali” proprio per intendere la loro “universalità”, anche se devono poi essere declinate tenendo conto delle politiche, della cultura, dei valori esistenti nello specifico contesto organizzativo in cui il manager opera.
Da un lato occorre comprendere profondamente la propria organizzazione, dall’altro occorre una notevole consapevolezza, una grande capacità critica per autovalutarci  in ciò che è difficilmente misurabile in modo oggettivo
Quali sono i nostri punti forti e quali le aree da potenziare?
E’ possibile, e se lo fosse, da dove cominciare?
Si parte da: curiosità, disponibilità a mettersi in gioco, capacità di riconoscere i propri limiti, ma anche di valorizzare le proprie risorse, accompagnati da determinazione e costanza.
Ci siamo?
Bene, allora da dove cominciare: in primo luogo si tratta di cogliere tutte le opportunità che l’azienda offre per conoscersi meglio.
Tutte le aziende hanno proprie politiche del personale; sono dichiarate spesso al momento dell’assunzione, sono contenute nelle procedure, enunciate a volte nelle carte valori o nelle politiche della qualità, sono dimostrate nelle azioni quotidiane del management.
Alcune di queste hanno una particolare rilevanza informativa per lo sviluppo e la crescita professionale.
La valutazione delle prestazioni: misura i risultati ottenuti a fronte di specifici obiettivi assegnati.
Permette di valutare il livello di “maturità professionale” del collaboratore; sempre più spesso non si limita a misurare il “cosa” (che si traduce in obiettivi quantitativi assegnati/perseguiti”), ma anche il “come”, ovvero i comportamenti messi in atto per raggiungere la prestazione. In molte griglie di valutazione, generalmente dopo la descrizione degli obiettivi quantitativi, sono indicati e descritti i comportamenti auspicati (le competenze trasversali sopra citate).
Può trattarsi di collaborazione, integrazione, flessibilità, capacità di coordinamento/guida, attenzione al cliente, ecc.
L’elenco varia a seconda dell’azienda e del ruolo del valutato, ma è un’informazione preziosa per comprendere su quali comportamenti si orienta l’azienda.
Spesso temiamo la valutazione e altrettanto spesso la “incassiamo” passivamente, sia essa positiva o negativa; molto più utile al contrario un atteggiamento esplorativo: cerchiamo di capire il feedback che ci viene dato, cerchiamo di fare domande per approfondire sia le criticità che gli aspetti da consolidare.
In questo modo sarà possibile trarre vantaggi immediati per migliorare la prestazione attuale ed informazioni per comprendere come orientarci nel futuro.
La valutazione del potenziale: è un po’ meno diffusa e di solito viene attuata nei confronti di giovani neo inseriti (i potenziali talenti per l’appunto) o comunque quando si aprono percorsi di carriera verticale.
La valutazione del potenziale è finalizzata a valutare attitudini, capacità ancora non espresse ma necessarie per la nuova posizione o la maggiore responsabilità.
Nelle piccole/medie imprese non è una prassi molto consolidata e spesso è affidata al capo diretto che indicherà le persone più promettenti basandosi sulle prestazioni ottenute nel passato (poco predittive rispetto al potenziale da sviluppare) e – inevitabilmente – sul proprio intuito personale.
Dal punto di vista della riflessione che stiamo sviluppando, gli elementi informativi rischiano di essere di scarsa utilità, tuttavia può essere opportuno cercare di comprendere quali capacità sono necessarie per quel ruolo e – se non siete tra i prescelti – osservare le capacità espresse dai neopromossi e da chi già ricopre quel ruolo.
In molte aziende la valutazione del potenziale viene affidata ad esperti esterni ai quali viene descritto il profilo di ruolo atteso e i comportamenti che l’azienda giudica di successo per quel ruolo.
Al termine del processo vengono stesi dei profili che sono messi a disposizione dell’azienda e del capo diretto. Benché auspicabile e fortemente consigliato, non sempre viene coinvolto nel feedback anche il valutato.
Quando questo avviene è una grande opportunità per avere informazioni ricche, non solo per il proprio sviluppo in quell’azienda, ma anche, più in generale, per il proprio progetto professionale.
Oltre ai momenti valutativi, è opportuno non sottovalutare le offerte formative dell’azienda.
Normalmente si tende a considerare utile ed interessante tutta la formazione relativa ai contenuti professionali del lavoro; non è raro considerare con un po’ di diffidenza e superficialità la formazione “comportamentale”; spesso sembra banale: perché partecipare a corsi sulla comunicazione?
Chi non sa comunicare?
A che serve il lavoro di gruppo se tendenzialmente si lavora da soli?
Chi non sa come trattare con il cliente.
Un’ultima riflessione – ma non ultima per importanza – merita lo scenario in cui l’azienda si muove, le sfide che deve affrontare.
E’ in fase di espansione?
A quali mercati si rivolge?
Sta cambiando qualcosa nel suo ambiente di riferimento? (clienti, concorrenza, vincoli/opportunità legislativi, ecc.)
Occorre aumentare la propensione al rischio?
Sviluppare l’approccio commerciale?
Innovare?
Non esitiamo a fare domande, a leggere le riviste di settore, a documentarci.
Tutto serve per capire se c’è e quale è il delta tra competenze possedute e competenze necessarie.
Non esiste nulla di tutto ciò?
Ci stiamo preparando ad affrontare un nuovo impiego e non abbiamo alcuna informazione che ci orienti?
In questo caso ecco un set di capacità, tra quelle considerate oggi strategiche per i manager del futuro.
Necessitano capacità cooperative e di integrazione organizzativa (necessarie per la gestione di relazioni sociali ed organizzative nell’ambito di gruppi di lavoro, funzioni / unità organizzative, situazioni di cooperazione interfunzionale e per il coordinamento di processi lavorativi e organizzativi di carattere funzionale ed interfunzionale).
Gestione e partecipazione a gruppi di lavoro (teamwork): partecipare al raggiungimento dei risultati attesi, integrando le proprie competenze con quelle di altre persone o coordinando le attività del gruppo.
Leadership: orientare i comportamenti altrui verso il risultato da conseguire, aggregando consenso.
Gestione del conflitto e negoziazione: valutare e gestire efficacemente le possibili situazioni di divergenza o contrasto, promuovendo soluzioni che soddisfino le rispettive esigenze.
Flessibilità: adeguare i propri comportamenti a situazioni diverse, interagendo con i propri interlocutori e confrontando le proprie idee.
Tra le capacità di innovazione (necessarie per mantenere vivo il know how aziendale, innovare e sviluppare processi, prodotto e servizi) ne hanno grande rilevanza quelle legate al . . .
Problem solving: valutare i vari aspetti dei problemi, individuarne le cause e le soluzioni più idonee.
Visione di insieme: gestire le situazioni, individuando le correlazioni fra variabili diverse e comprendendo il sistema di relazioni interne o esterne alla propria organizzazione.
Iniziativa: attivarsi prima che la situazione lo richieda, cogliendo le opportunità che si presentano e gestendo gli eventuali problemi, anche al di là dell’ambito specifico del proprio ruolo.
Tra le capacità organizzative e di sviluppo (richieste per contribuire all’organizzazione e allo sviluppo del business, in termini di comprensione e anticipazione della domanda e di relazione con il mercato) necessitano . . .
Orientamento al risultato: perseguire i risultati attesi realizzando le attività previste con il miglior impiego possibile di tempo, mezzi e altre risorse disponibili
Orientamento al cliente (interno/esterno): recepire i bisogni dei clienti esterni e/o interni ed operare per soddisfarne le esigenze, consolidando un rapporto di collaborazione
Pianificazione: definire, programmare e monitorare le attività da svolgere, coerentemente con gli obiettivi da raggiungere, il contesto di riferimento e le risorse disponibili (tempo, denaro, mezzi, persone, …).
Sensibilità economica: sensibilità all’impatto sui costi della propria attività e abitudine a valutare la stessa in base a dati quantitativi e indicatori di costi/benefici
La breve descrizione che accompagna ogni item vuole essere un primo aiuto per autovalutarsi.
Non è tuttavia sufficiente perché, come già sottolineato all’inizio, la nostra autopercezione è limitata dal naturale bisogno di conferma, dalle nostre credenze, dal punto di osservazione esclusivamente interno, dal nostro personalissimo e soggettivo modo di vedere il mondo.
E’ possibile aumentare la consapevolezza e la conoscenza di sé cercando il feedback delle persone con cui viviamo e lavoriamo, ricordandoci però di chiedere un feedback descrittivo sui comportamenti che mettiamo in campo (e non un giudizio sulla persona). In altre parole “cosa e come ho fatto” non “come sono”.
Ricordiamoci anche che il feedback si accetta (eventualmente si deciderà se utilizzarlo oppure no).
Comunque affrontiate il vostro percorso, sfruttando le opportunità che offre la vostra azienda, cercando di costruirlo da soli o con il supporto di strutture pubbliche o private specializzate, consideratelo un entusiasmante viaggio di scoperta: solo così potrete trarne il massimo vantaggio, divertendovi anche di fronte a qualche insuccesso e godendo di ogni risultato.