La maggior parte delle persone confonde l’intelligenza con la cultura o il percorso di studi, ovvero la capacità del cervello di elaborare e ricordare informazioni, e quindi la capacità di trarre conclusioni dai dati e dai fatti.
Eppure il mondo è pieno di persone che, pur brillanti accademicamente, non sono riusciti ad avere successo nella loro vita professionale o personale, pur avendone l’opportunità.
Quanti professionalmente brillanti e capaci, pur eccellendo nelle abilità richieste, sono incapaci di comunicare o di ascoltare?
E quanti, pur non eccelsi professionalmente, alcuni addirittura mediocri, hanno avuto invece successo?
Spesso, la risposta a questi quesiti è legata alla intelligenza emotiva.
L’intelligenza emotiva è la capacità di identificare, capire, usare, gestire e controllare le emozioni.
Questo comprende non solo le nostre emozioni, ma anche quelle degli altri, comprese le loro motivazioni e i loro desideri.
Nel corso della vita, dall’infanzia all’età adulta, il livello di intelligenza emotiva influisce sul nostro comportamento e nell’interazione con gli altri: famiglia, amici, i colleghi, persone che amiamo o non conosciamo, coloro che rispettiamo, coloro dai quali desideriamo ottenere rispetto da, quelli che vorremmo impressionare, di cui abbiamo bisogno o paura.
Quanto siamo bravi a impegnarci con gli altri?
A scuola ci hanno insegnato che lavorando sodo avremmo avuto successo, tuttavia, di fronte alle sfide della vita, personali e professionali, più che agli insegnamenti scolastici, dobbiamo attingere dalla nostra comprensione di noi stessi e dell’ambiente in cui ci troviamo.
Secondo i più l’intelligenza emotiva è definita da quattro caratteristiche fondamentali: consapevolezza di sé, auto-gestione, consapevolezza sociale e relationship management.
Conoscere se stessi consente essere di poter valutare le proprie emozioni, evitando i disagi che potrebbero derivare da un eccessivo stress, permettendoci altre sì di comprendere come gli altri si relazionano con noi.
Quello che a parole può sembrare ovvio e banale, in realtà è difficile da coltivare, in quanto l’essere umano tende naturalmente a vedere ciò che vuole vedere, e non sempre è consapevole del proprio impatto sugli altri.
Autogestirsi significa controllare i sentimenti impulsivi, adattarsi al mutare delle situazioni rimanendo positivi senza reagire rapidamente.
Gestire i nostri impulsi è l’unico modo per affrontare con successo le sfide e impedirsi di sentirci sopraffatti.
La consapevolezza sociale è la capacità di comprendere le esigenze e le preoccupazioni degli altri.
Occorre un alto livello di empatia, ma chi coloro che sono socialmente consapevoli, sono in grado di relazionarsi con gli altri e sanno come farli sentire speciali, compresi e rispettati.
Infine la gestione delle relazioni (relationship management) richiede le capacità di coltivare relazioni e ispirare le persone, di influenzare gli altri e disinnescare i conflitti, e per fare questo è necessario aver sviluppato la consapevolezza di sé, l’auto-gestione e la consapevolezza sociale.
Niente di tutto questo viene insegnato a scuola, ma le competenze appena descritte hanno un impatto sulla vita di ognuno, e non solo a livello professionale.
Ma è possibile imparare ad affinare la propria intelligenza emotiva?
Molte delle persone che conosco, e che hanno una sensibile intelligenza emotiva, l’hanno spesso sviluppata grazie alle loro famiglie.
Hanno avuto dei genitori che hanno conversato con loro sin da piccoli e li hanno osservati nelle loro interazioni con gli altri, ma anche amici con altrettanta sensibile intelligenza emotiva.
Oggi cominciano ad esserci organizzazioni che cercano di incoraggiare lo sviluppo di intelligenza emotiva, anche se questo, perlopiù, avviene solo a certi livelli della struttura gerarchica.
Ai manager si chiede di essere preparati a gestire conflitti ed emozioni, ma senza un forte sistema di supporto della famiglia, degli amici o di qualche mentore, questa componente fondamentale per il successo nel lavoro e nella sfera personale, è in gran parte ignorata da uno dei suoi principali fruitori . . . l’azienda che si augura che quel manager si in grado di gestire se stesso e gli altri.
Monthly Archives: settembre 2013
Professionista o rana dalla bocca larga?
Due amici erano a pranzo.
Mentre mangiavano non fu loro difficile ascoltare una conversazione del tavolo a fianco, visto il tono di voce utilizzato dalle persone che lo occupavano.
Un uomo e una donna, dipendenti di una grande e ben nota società, stavano avendo una discussione sul calo di qualità dei loro prodotti.
Uno dei due amici, sales manager di un’azienda di consulenza, disse che li avrebbe avvicinati non appena avessero finito il loro pranzo, convinto com’era di poter risolvere il loro problema.
L’altro gli fece notare che avevano ascoltato una conversazione privata, e che non pensava fosse il caso di avvicinarli.
Il primo disse “chi non risica, non rosica” e al momento opportuno si presentò loro con un biglietto da visita in mano dicendo che non aveva potuto fare a meno di ascoltare la loro conversazione e che era certo di poterli aiutare a risolvere rapidamente i problemi di cui li aveva sentiti discutere.
L’uomo lo interruppe a metà frase dicendogli che non era interessato a starlo a sentire, e se andò seguito dalla donna lasciandolo basito e scioccato . . . non poteva credere che stesse succedendo proprio a lui.
Dire sono un consulente, e comportarsi da consulente, sono due cose diverse.
Più che all’approccio di un efficace problem solver, sembrava di aver assistito alla performance di un noleggiatore di servizi di riparazione rapida.
In un’altra occasione il general manager di un’azienda informatica, mandò una mail al proprio business coach chiedendo se doveva chiamare il direttore generale della società Beta, visto che stava frequentando un seminario nei pressi della loro sede centrale e che quindi avrebbe potuto facilmente incontrarlo.
La società Beta aveva un problema specifico e il nostro GM ne era venuto a conoscenza in occasione di una discussione con un suo cliente, che chiameremo società Alfa, e le voleva utilizzare per impressionare il DG.
Il business coach gli chiese perché volesse usare informazioni ottenute in via confidenziale da un cliente, al solo scopo di avere l’attenzione di Mister Beta.
Che si tratti di consulenti come nel primo caso, o di manager commerciali come nel secondo, sarebbe buona cosa ricordare che l’unico modo per essere credibili, e dare sviluppo alla propria attività, è quello di non comportarsi come “una rana dalla bocca larga“.
Per quanto ci sia gente che la pensa diversamente, sono convinto che utilizzare informazioni riservate, carpite o sentite occasionalmente, piuttosto che raccolte in confidenza, non sia poi tanto diverso diverso dall’acquisto di un elenco di contatti da chiamare freddo.
In definitiva è solo cercare di vendere qualcosa a qualcuno senza aver fatto i compiti a casa.
Coloro che agiscono senza essere dotati di una pur minima etica negli affari, non possono aspettarsi di poter acquisire clienti top.
Sviluppare la leadership
Le motivazioni più comuni spaziano dall’essere troppo impegnati a imparare una nuova parte del business, dall’avere a che fare con un problema di performance dei collaboratori, del dover preparare un nuovo progetto.
Siamo metodici o vaghi nello sviluppare la nostra leadership?
Stiamo imparando o siamo troppo presi a insegnare agli altri?
Se avessimo la possibilità di poter sviluppare la nostra leadership, non varrebbe la pena di sfruttarla?
Non è questione di aggiungere più ore alla nostra settimana, ma sapere ciò che si vuole sviluppare in modo attivo e mettersi in situazioni in cui si possono imparare queste nuove competenze.
Quando uno dei nostri collaboratori viene da noi con un problema, è una opportunità di sviluppo.
Un alto dirigente una volta mi disse di aver speso circa il 75% del suo tempo a sviluppare gli altri.
Le opportunità sono intorno a noi, abbiamo solo bisogno di approfittarne.
I venditori stanno diventando obsoleti?
Ultimamente, alcune conversazioni che riguardano la vendita, sia face to face, che sui social, hanno come focus il fatto che nei prossimi decenni sparirà la professione del venditore, o quantomeno la necessità di avvalersi di una forza vendite andrà diminuendo.
Non potrei essere più in disaccordo in quanto ritengo che il mondo del commercio, che si tratti di business to business, piuttosto che business to consumer, ha, oggi più che mai, bisogno di venditori professionali.
Sicuramente internet rende facile acquistare molte cose, confrontare prezzi, raccogliere dati, e sollecitare pareri, e molti acquisti vengono fatti mediante la rete.
Ma se vendere è aiutare qualcuno a fare o decidere qualcosa, dobbiamo anche dire che la rete, per quanto prodiga di informazioni, non riesce a colmare questo bisogno di “assistenza” e “complicità” che legano il cliente al venditore.
In realtà la guida di un affidabile interlocutore serve in quanto:
- Avere troppe informazioni finisce con il rallentare il processo decisionale per molte persone.
- Per i consumatori l’acquisto può essere un processo complicato, dovendosi destreggiare tra bisogni, emozioni e logica.
- Le persone sono differenti e hanno esigenze di socializzazione anche quando acquistano
Vero è che la facilità di accesso alle informazioni e il conseguente potere d’acquisto richiedono che i venditori siano consapevoli di dover diventare sempre più abili nelle conversazioni, garantendo alla controparte che, tutto quello che fanno, è orientato ad aiutarla nel fare o decidere qualcosa.
Significa anche che i venditori devono essere flessibili nelle loro conversazioni, chiedendo informazioni al cliente circa quello che sa e che vorrebbe sapere,al fine di poterlo guidare verso una decisione efficace ed efficiente.
Credo che il tempo ci dirà cosa succederà a questa professione, ma sono convinto che di venditori competenti, e che sappiano ricambiare la fiducia del cliente, ci sarà sempre bisogno.
Scambiare la gentilezza per debolezza
Anni fa c’era un collaboratore che aveva delle carenze strutturali nelle relazioni, ma intoccabile in quanto era nelle grazie del partner anziano dell’azienda per la quale lavorava, il quale gongolava per i continui apprezzamenti che da questi riceveva.
Questo baldo furbetto aveva a che fare anche con l’altro socio di maggioranza che era, tra l’altro, il gestore economico-finanziario; quest’ultimo era sempre cortese nei suoi confronti , anche quando doveva ragionare sul suo rendimento e sui suoi comportamenti.
Il socio gestore, grazie a una sensibile capacità intuitiva, era in grado di leggere velocemente le persone e si era subito reso conto di che pasta era fatto il nostro eroe, ma per rispetto nei confronti del proprio partner, si era sempre rivolto a lui con gentilezza e considerazione, anche quando avrebbe dovuto prenderlo di petto.
Gli sembrava di parlare con un muro di gomma ricevendo innumerevoli “è colpa di quello . . . – si però io . . . – ma il tuo socio mi ha detto che . . . – ma io sono bravo, sono gli altri che . . .“; l’astuto collaboratore in altre conversazioni stava zitto, salvo poi avere reazioni isteriche con l’altro partner il quale, obnubilato dalle sue lusinghe, non poteva far altro che schierarsi al suo fianco dando torto al socio con cui condivideva la stessa strada da quasi 20 anni.
Questo durò per quasi tre anni nei quali più l’infingardo collaboratore e il partner anziano alzavano il tiro, più il socio gestore abbassava la testa, facendo il suo lavoro, limitandosi a relazioni di routine, sempre cortesi e gentili.
Un giorno il partner anziano lo convocò e gliene disse di tutti i colori offendendolo sia sul lato professionale, che personale dicendo che da li a sei mesi le loro strade avrebbero dovuto separarsi.
Il socio gestore ne prese atto, cercò per l’ultima volta di ragionare col suo partner, e poi si mise a lavorare per preparare il passaggio societario in quanto il partner anziano si aspettava che lui rilevasse le quote dell’azienda.
E così fu, i due si divisero e ognuno andò per la sua strada: il partner anziano e il collaboratore astuto diedero all’altro non più di tre anni di vita professionale, leggendo la sua remissività come lo specchio del suo declino, convinti di riprendersi, molto presto, l’azienda per poco o niente.
Ho raccontato questa storia perché è uno di quei casi evidenti in cui la gentilezza è stata scambiata per debolezza
Ci sono persone che cercano di semplificare, anziché complicare le cose, ma non sempre questo viene letto nella giusta prospettiva in quelli che possiamo definire ambienti competitivi, ed è facile, all’occhio superficiale, scambiare questa determinazione, con debolezza o incapacità di agire.
Ci sono persone che, quando si arrabbiano o si ritengono offese, difficilmente perdono la calma, e anche quando la perdono non urlano, né hanno reazioni rumorose.
Ci sono persone estremamente educate che si infuriano quando ritengono di aver subito un torto, ce ne sono altre che diventano estremamente loquaci e chiassose, e ce ne sono altre ancora che rimangono, all’apparenza, imperturbabili e che, quasi a bilanciare la loro sofferenza interiore, aumentano i comportamenti gentili nei confronti di coloro che li stanno facendo soffrire.
In qualsiasi attività commerciale, o di relazione, l’errore più grande che chiunque può fare, è sottovalutare l’altro.
Per chi si stesse chiedendo come sia andata a finire a distanza di anni la storia di prima, diremo semplicemente che il socio gestore è sempre saldamente in sella alla sua azienda, mentre il partner anziano, purtroppo per lui, sta lavorando per il collaboratore astuto che lo ha spossessato praticamente di tutto; tutte le azioni hanno conseguenze.
Molti di noi non prestano particolare attenzione a quello che succede intorno a loro, ma avere coscienza delle proprie azioni quando si tratta con gli altri è fondamentale; la maggior parte delle offese che si verificano quotidianamente avvengono perché non ci curiamo degli altri, delle parole e delle azioni che rivolgiamo loro