Team: motivare le nostre persone!

by Oliviero Castellani

Di recente ho ritrovato questo vecchio video (di Weird Al Yankovic – comico e attore statunitense https://www.youtube.com/watch?v=GyV_UG60dD4) che ironizza su quanto siano solitamente poco originali gli statement motivazionali aziendali (“monetizzare le risorse”, “sfruttare le competenze chiave” o “ogni risorsa è fondamentale”) nei confronti delle persone del proprio team.

Dopo aver dato un’occhiata al video, pensiamo alla nostra mission attuale: stiamo cantando la solita vecchia canzone, o siamo pronti a distinguerci dalla massa?

I. chiediamolo ai nostri collaboratori

La maggior parte degli statement motivazionali viene scritta in una sala riunioni dal gruppo dirigente, manager che passano tanto (troppo) tempo a leggere libri di gestione pieni di termini come “sinergia” e “valore aggiunto”, “due diligence” e cose del genere – ed è per questo che gli statement aziendali vengon fuori tutti uguali.
Chiedendo invece ai nostri collaboratori, alle persone reali, cosa le motivi a venire a lavorare ogni giorno, e cosa le mantenga energizzate, ci aiuterà a creare una dichiarazione motivazionale in grado di rispecchiare davvero la cultura e i valori della nostra azienda.

II. cambiamo la domanda

Anziché chiederci e chiedere alle persone del nostro team “Qual è la nostra mission?” proviamo a semplificare la domanda in “Qual è il nostro scopo?” o “Perché siamo in questo business?” o “Cosa ci tira fuori dal letto la mattina, per venire a lavorare?”
Un linguaggio più accessibile, e concreto, fornirà risposte più accessibili e concrete. 

III. lasciamo che pensino da soli

Già, lasciamo che le persone rispondano da sole alla domanda, usando un sondaggio (anche anonimo) o in una sessione di brainstorming collettivo in cui tutti i collaboratori hanno facoltà di iniziare a poi scrivere indipendentemente.
Tentando, come fanno molti, di creare un mission tutti insieme come primo passo, si finisce solitamente per produrre un messaggio che parla un linguaggio comprensibile a tutti, ma generico, che non tiene conto delle idee personali che un individuo potrebbe non esporre perché trasportato dalla corrente generale, che solitamente manca di originalità, creatività e frizzantezza.

IV. decidiamo insieme

A questo punto, potremmo visionare tutte le risposte individuali in una sessione di gruppo, così da scoprire temi spontaneamente comuni e identificare il linguaggio con cui parla il team nel complesso.

Prendiamo in considerazione l’assunzione di un facilitatore per eseguire questa sessione, per assicurarci che tutti siano ascoltati e provare a concordare una bozza che mantenga lo spirito della nostra cultura aziendale e al contempo sia in grado di ispiri il team in maniera personalizzata.
A seconda delle dimensioni della nostra azienda, potremmo aver bisogno di qualche giro di revisioni per poter giungere a qualcosa che possa soddisfare le aspettative di tutti.
Se la conversazione dovesse scaldarsi, non dobbiamo disperare – sarebbe in realtà un segno che le persone si stanno davvero appassionando nel creare qualcosa di eccezionale e che rispecchi veramente il loro ruolo all’interno del team!

Una volta finito, non dovremmo dimenticare di guardare di nuovo il video di cui sopra, per assicuraci che nessuna di quelle “frasi fatte” si intrometta nella nostra formulazione finale.

V. comunichiamo, ispirando

Una dichiarazione di intenti o uno statement motivazionale dovrebbe meritare più di una paginetta obbligata sul nostro sito web o un trafiletto altisonante nel manualetto del dipendente che distribuiamo in azienda.
Se riusciamo a catturare davvero la passione dei nostri dipendenti, la nostra mission può essere utilizzata come strumento per il nostro team attraverso il quale prendere decisioni attraverso momenti difficili.
Alcuni li intonacano sulle pareti, altri li recitano in apertura della riunione del proprio staff altri compongono una canzone che tutti i tuoi dipendenti devono imparare e cantare al picnic aziendale ..ecco, questo magari – tipicamente made in U.S.A. – potrebbe essere un po’ azzardato, visto che ultimamente gli esperimenti italiani in tal senso si sono tramutati in un’arma a doppio taglio, con alcuni video virali che hanno fatto il giro del web in toni tutt’altro che positivi : )

Cosa fa di un venditore un top performer?

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Covid19: tre riflessioni

by Oliviero Castellani

Covid19: quando finirà l'emergenza?

Amici, clienti, corsisti, in molti si chiedono, e mi chiedono, quando finirà questa emergenza, come possiamo andare avanti in queste condizioni (economicamente parlando) ecc., cosa possiamo fare?

Una domanda da 10.000.000 di euro!

Purtroppo siamo di fronte a un virus che sta infettando molti e sta togliendo la vita ai più vulnerabili.

Non penso di avere idee o soluzioni originali se non invitare, prima di tutto, a prendersi cura di se stessi, proteggendo la propria salute mentale ed emotiva (essere consapevoli è un conto, farsi travolgere da chi sensazionalizza è un altro), ancorché fisica.

Prendiamoci cura (rispettando le regole) degli altri – familiari, amici, vicini, estranei – anche a distanza (abbiamo wap, skype, messenger, ecc.); se non possiamo far nulla fisicamente, facciamolo “emotivamente”.

Conserviamo un senso di normalità, se riusciamo ancora a lavorare facciamolo per quel che è possibile, riprendiamoci lo spazio di “vivere più profondamente” i nostri affetti approfittando del tempo che la nuova routine ci sta regalando.

Le cose passano quando stanno andando bene, ma passano anche quando stanno andando male.

Dipende solo da come usciremo da questo periodo; mi auguro che ognuno di noi, anche se di poco, possa guardare la vita con occhi migliori.

Covid19: i clienti hanno bisogno di noi

Non possiamo cambiare il mondo o ciò che sta accadendo intorno a noi, ma possiamo cambiare il modo in cui rispondiamo a ciò che sta accadendo intorno a noi.

I clienti hanno bisogno di noi, e della nostra capacità di aiutarli a superare i momenti difficili che sono fuori dal loro controllo.

Ciò di cui hanno bisogno è la nostra calma, una voce sicura e idee e pensieri che facciano vedere il sole oltre le nuvole, evitando di rimanere intrappolati in ciò che dicono su internet e sui social media. I clienti devono avere nostre notizie, hanno bisogno delle nostre idee e delle nostre soluzioni.

Molti dei nostri clienti sono nella nebbia, perché sono preoccupati ciò che li circonda, sta a noi mantenere la calma e mostrare loro dove concentrare la propria energia e il proprio pensare.

E non possiamo farlo se siamo coinvolti nello stesso caos, possiamo farlo solo concentrandoci sulle opportunità di domani, piuttosto che sulle sfide di oggi.

Durante i periodi difficili, non è facile concentrarsi sui clienti, ma questi periodi, esattamente come quelli buoni, non durano per sempre.

Siamo ottimisti, rendiamoci accessibili; le persone hanno bisogno di sincero ottimismo per vincere le proprie paure.

Covid19: aggiornarsi online

A seguito della pandemia di COVID-19 il mondo del lavoro si è spostato in massa a casa, e la formazione si è spostata sul virtuale.

Proliferano i webinar, alcuni di grande qualità, ma, per quanto istruttivi, i webinar hanno solitamente un grado di coinvolgimento basso e un numero di partecipanti alto.

Sono ottimi veicolatori di contenuti, ma se vogliamo parlare di formazione online dobbiamo almeno rispettare qualche parametro della formazione tradizionale.

Una virtual classroom ideale è compresa tra 8-12 persone, dura 90-120 minuti e più che di un relatore, ha bisogno di un “facilitatore-animatore” in grado di favorire l’interazione in diretta: chat, esercitazioni, giochi di ruolo, discussioni di gruppo.

Questo permette di coprire argomenti complessi in poche sessioni distanziate, dando tempo ai partecipanti per riflettere e applicare quanto appreso, grazie a “compiti a casa” e integrazioni (audio, video, consulenza online) tra una sessione e l’altra.

L’esperienza mi porta a dire che un’ottima combinazione per sviluppare e affinare le competenze è rappresentata da sessioni virtuali dal vivo settimanali o bisettimanali, integrate da contenuti e supporti audio e video.

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Competitor: come distinguersi dalla concorrenza

#SecretRECIPE

by Oliviero Castellani

La nostra azienda si distingue dalla concorrenza? O sembriamo come ogni altra azienda del settore?

È importante essere in grado di formulare la nostra “Ricetta” per poi farla “assaggiare” ai nostri potenziali clienti in modo che capiscano perché dovrebbero comprare da noi anziché da un nostro competitor.

Non è raro che le aziende diventino un po’ confuse riguardo ai loro fattori di differenziazione nel tempo – mentre l’azienda cresce e si evolve, il vantaggio competitivo potrebbe cambiare anche piuttosto sensibilmente – quindi sarebbe utile fermarsi e fare il punto della situazione a tal proposito almeno una volta all’anno.

Vediamo insieme qualche consiglio che potrebbe aiutarci ad approcciare un’analisi della concorrenza:

Tip #1: studiamo i nostri competitor

Cominciamo con l’identificare tre o quattro dei nostri principali concorrenti e raccogliamo quante più informazioni possibili su ognuna di esse (“tutto fa brodo”): storia dell’azienda, numero di dipendenti, prodotti e servizi offerti, elenco dei clienti chiave, fatturato e prezzi, presenza sui social media, tecniche di marketing online e offline, ecc.

Per la maggior parte di questi dati basterà impegnarsi in un’attenta ricerca online. Ma potremmo anche fare una telefonata ai nostri clienti attuali che potrebbero aver avuto contatti con la concorrenza prima acquistare da noi. Non dimentichiamo di parlare con il nostro team di vendita per scoprire cosa hanno imparato dalle loro esperienze con i prospect o interagendo con la concorrenza in occasione di fiere o eventi di networking – se è il caso.

 
Assicuriamoci di non perderci una virgola di ciò che i nostri concorrenti stanno facendo bene: usano magari un tipo specifico di tecnica di marketing che potrebbe funzionare anche per noi? Quali aspetti del loro sito Web e del marketing online hanno progettato diversamente da noi (o meglio noi) per attirare i clienti? ecc.

Dopo aver catalogato i punti di forza dei concorrenti, compiliamo un elenco delle loro debolezze, se ne individuiamo, e cerchiamo in esse l’opportunità per differenziarci offrendo contenuti o servizi in cui gli altri nel nostro mercato non sono performanti, o non hanno ancora implementato.

TIP #2: guardiamoci allo specchio

Quando abbiamo finito con i concorrenti selezionati, facciamoci la stessa serie di domande sulla nostra attività, puntiamo la lente di ingrandimento su noi stessi, dal punto di vista di un estraneo.

Potremmo, anche qui, chiamare alcuni clienti e partner per chiedere loro la gentilezza di valutare onestamente il nostro marketing online, i nostri prodotti e servizi e il servizio clienti.
Chiediamogli perché hanno scelto di lavorare con noi.
Quello che ci diranno può essere in linea con la nostra autovalutazione, o potrebbe sorprenderci mettendo in evidenza fattori che non abbiamo mai considerato importanti per il processo decisionale del cliente.
Potremmo vedere nuovi , decisivi particolari riflessi nello specchio. Particolari che ci siamo persi nell’insieme dell’immagine e nelle caratteristiche che siamo abituati e/o convinti di vedere ogni volta.

tip #3: identificare 3 qualità uniche

Confronta la nostra autoanalisi con i dati che abbiamo raccolto sui nostri principali concorrenti e facciamo una lista delle prime tre cose che differenziano la nostra azienda dai competitor che abbiamo selezionato e studiato.

È estremamente importante, naturalmente, assicurarci che le nostre tre qualità uniche siano effettivamente tali: #UNICHE
Cerchiamo di non cascare in cliché quali “servizio clienti superiore” o “prezzi convenienti”: in ogni settore, ad ogni livello, ci sono tante (troppe) aziende che dicono queste cose, siamo ormai saturi – come consumatori – di questo genere di comunicazione, quindi una “unicità” del genere non potrà essere veramente determinante al fine di differenziarsi positivamente sul mercato.

tip #4: aggiorniamo marketing & messaggio

Facciamo infine un passo indietro. Andiamo a dare un’occhiata al nostro sito web e al materiale che utilizziamo per il marketing con occhi nuovi: assicuriamoci che i nostri messaggi trasmettano chiaramente ciò che ci rende diversi dalla concorrenza. Quindi, consideriamo la possibilità di creare un nuovo documento, una landing page sul sito, una brochure ecc. che abbia un titolo tipo “In cosa alla #nomesocietà siamo diversi dagli altri”. Naturalmente possiamo sbizzarrirci riguardo al messaggio, ma il fine deve rimanere il medesimo: dobbiamo rinnovare la nostra immagine agli occhi del prospect, intrigandolo ed incuriosendolo nell’atto di scoprire cosa abbiamo di diverso rispetto agli altri sul mercato.

Last but not least, assicuriamoci sempre, costantemente che il nostro team di vendita sappia come parlare di ciò che ci rende differenti e quindi grandi, senza incappare negli assolutismi dei cliché che puntano a sottolineare troppo spesso un irraggiungibile ed irreale annientamento della concorrenza.

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Alla ricerca della felicità . . .

Chi ha visto il celebre film interpretato da Will Smith? Pieno di frasi a effetto affinché ognuno di noi si possa guardare dentro.

Tra le tante, quella che mi ha fa ancora sorridere, ma riflettere al tempo stesso, è legata al dialogo del colloquio di assunzione <<Datore di lavoro: Mi dica, che cosa penserebbe se le dicessero che un signore presentatosi a un colloquio di lavoro senza nemmeno indossare una camicia è stato assunto? ChrisBeh… che probabilmente portava un gran bel paio di pantaloni!>>.

Dipende sempre su cosa ci concentriamo.

Se ci mostrassero un modo per raddoppiare le nostre vendite o il nostro reddito, molti di noi sarebbero sicuramente interessati!

E se ci mostrassero, allo stesso tempo,  un modo per allungare in maniera sana  la nostra vita di ulteriori 10 anni, avrebbero molto probabilmente la nostra attenzione!

Sempre nel film Smith dice <<Perché la felicità è qualcosa che possiamo solo inseguire, e che forse non riusciremo mai a raggiungere, qualunque cosa facciamo . . .>>

Inseguire o c’è un modo semplice per essere felici?

Per alcuni, essere felici per ciò che si è e per quello che si ha già, suona quasi come una rinuncia al voler perseguire il successo nella vita.

Secondo Marci Shimoff (autrice di  Felici Senza Motivo – un metodo pratico in sette passi per godersi la vita – Ed. Corbaccio 2009) , Il nostro successo non ci renderà felici, ma la nostra felicità ci farà avere successo”.

E prima che si possa pensare a questa come alla classica affermazione “new age”, dobbiamo ricordare che differenti ricerche supportano questa affermazione.

Perché sto dicendo questo?

Perché normalmente le persone pensano che saranno felici quando avranno o diventeranno.

Rimpiangono un passato e sognano un futuro . . . questo anche nella vendita, per non parlare di coloro che si angosciano non “vedendo” più un futuro simile al passato.

Anche qui Smith sembra soccorrerci <<Posso dire una cosa? Sono il tipo di persona che se mi fate una domanda e non so qual è la risposta, vi dico chiaro e tondo che non la so, ma potete scommettere che so come trovarla una risposta e la troverò, la troverò la risposta…>>

Amare chi siamo e quello che stiamo facendo, apprezzare quello che abbiamo e goderci le nostre relazioni, ci permette di essere felici subito e comunque.

Che ci  si creda, o meno, è l’essere felici che ci aiuta a raggiungere gli obiettivi e non viceversa.

Nessun venditore, e nessun sales manager, dovrebbe mai dimenticarsi di questo suggerimento.

Conoscersi per realizzare i propri obiettivi

Molto tempo fa da qualche parte lessi “non sono mai gli eventi a determinare i nostri stati d’animo, quanto il significato che noi diamo loro”.
In altre parole filtriamo gli eventi attraverso la visione che abbiamo del mondo e della lettura che diamo alla nostra vita, dando vita a reazioni fisiologiche identificate come emozioni o stati d’animo, adottando di conseguenza i comportamenti che riteniamo più coerenti con questi stimoli.
In definitiva i nostri stati d’animo sono influenzati dalle convinzioni che abbiamo su chi noi siamo, sulla nostra identità e quindi su ciò che riteniamo ci caratterizzi, piuttosto che dalle regole di base grazie alle quali riteniamo soddisfatti i nostri valori, piuttosto che nel modo di come interpretiamo gli eventi (successi e insuccessi).
Il modo con cui cerchiamo di spiegarci gli eventi è meglio conosciuto come stile esplicativo, ed è un qualcosa che ha attraversato con noi la nostra infanzia e la nostra adolescenza: è un’abitudine di pensiero che si può modificare.
Per fare un rapido esempio riprendiamo un argomento che abbiamo affrontato qualche settimana fa a proposito di ottimismo e pessimismo.
Di fronte al medesimo insuccesso, che oggettivamente è lo stesso per entrambi, lo stile esplicativo del pessimista tenderà a rappresentarlo come un qualcosa che durerà per sempre, che manderà tutto in rovina e che in fondo la colpa è solo sua.
L’ottimista invece leggerà la situazione unica e isolata, che passerà presto, e che ha anche cause esterne alla sola propria capacità e volontà.
In caso di successo il pessimista cronico lo leggerà come la situazione unica e isolata, che passerà presto, e che dipende soprattutto da fattori esterni; l’ottimista a prescindere, invece, lo vivrà come un qualcosa che durerà per sempre, che a seguito di questo anche altre cose andranno bene, e che in fondo è anche merito suo.
Con le parole comunichiamo i nostri stati d’animo, le nostre idee, le nostre convinzioni agli altri, ma anche e soprattutto a noi stessi, e attraverso queste possiamo provocare e provocarci reazioni emotive positive, piuttosto che negative.
Le cose che diciamo costantemente e intensamente, poco per volta, diventano la nostra realtà.
Sviluppando la consapevolezza delle parole che utilizziamo, è possibile cambiare lo stato d’animo attraverso il linguaggio, cercando di concentrarci nel descrivere, e descriverci, maggiormente le esperienze positive, imparando ad utilizzare termini che contengano una minor carica emotiva per descrivere le esperienze non positive, imparando ad utilizzare termini che contengano una maggior carica emotiva per descrivere le esperienze positive.
Qualsiasi cosa su cui ci concentriamo diventa per noi la nostra realtà, e come la facciamo influenza le nostre percezioni e quindi i nostri stati d’animo.
Le domande che ci facciamo determinano ciò su cui ci focalizziamo e ciò su cui orientiamo la nostra attenzione.
Le convinzioni che abbiamo di noi stessi determinano gli obiettivi su cui ci concentreremo, i livelli di difficoltà che riterremo sostenibili, l’impegno che riusciremo a profondere e la nostra perseveranza nel farlo.

Storiella indiana

Il mio amico aprì il cassetto del comodino di sua moglie e estraendone un pacchetto avvolto in carta di riso: “Questo – disse – non è un semplice pacchetto, è biancheria intima”.
Gettò la carta che lo avvolgeva e osservò la seta squisita e il merletto.
“Lo comprò la prima volta che andammo a New York, 8/9 anni fa”.
“Non lo usò mai.
Lo conservava per un’occasione speciale.”
“Bene. Credo che questa sia l’occasione giusta”. Si avvicinò al letto e collocò il capo vicino alle altre cose che avrebbe portato alle pompe funebri.
Sua moglie era appena morta.
Girandosi verso di me disse: “Non conservare niente per un’occasione speciale, ogni giorno che vivi è un’occasione speciale.”
Sto ancora pensando a queste parole che hanno cambiato la mia vita.
Adesso leggo di più e pulisco di meno.
Mi siedo in terrazzo e ammiro il paesaggio senza far caso alle erbacce del giardino.
Passo più tempo con la mia famiglia e gli amici e meno tempo lavorando.
Ho capito che la vita deve essere un insieme di esperienze da godere, non per sopravvivere!
Ormai non conservo nulla.
Uso i miei bicchieri di cristallo tutti i giorni.
Mi metto la giacca nuova per andare al supermercato, se decido così e ne ho voglia.
Ormai non conservo il mio miglior profumo per feste speciali, l’uso ogni volta che voglio farlo.
Le frasi ‘un giorno…’ e ‘uno di questi giorni’ stanno scomparendo dal mio vocabolario.
Se vale la pena vederlo, ascoltarlo o farlo adesso.
Non sono sicuro di cosa avrebbe fatto la moglie del mio amico, se avesse saputo che non sarebbe stata qui per il domani che tutti prendiamo tanto alla leggera.
Credo che avrebbe chiamato i suoi familiari e gli amici intimi.
Magari avrebbe chiamato alcuni vecchi amici per scusarsi e fare la pace per una possibile lite passata.
Sono queste piccole cose non fatte che mi infastidirebbero, se sapessi che le mie ore sono contate.
Infastidito perché smisi di vedere buoni amici con i quali mi sarei messo in contatto ‘un giorno’.
Infastidito perché non scrissi certe lettere che avevo intenzione di scrivere ‘uno di questi giorni’. Infastidito e triste perché non dissi ai miei fratelli e ai miei figli, con sufficiente frequenza, quanto li amo.
Adesso cerco di non ritardare, trattenere o conservare niente che aggiungerebbe risate ed allegria alle nostre vite.
E ogni giorno dico a me stesso che questo è un giorno speciale.
Ogni giorno,
ogni ora,
ogni minuto…è speciale.

Il pensiero laterale

Quando ci troviamo di fronte ad un problema da risolvere, abbiamo tendenzialmente due alternative: affrontarlo frontalmente per rimuovere l’ostacolo diretto, oppure affrontarlo in modo “trasversale” .. o come si usa dire, “aggirando l’ostacolo”.
Facile da dire, un po’ più difficile da fare!
Siamo abituati da sempre ad utilizzare la soluzione diretta: se c’è, è forse la via più breve, ma non sempre c’è o è immediata e questo ci mette nei pasticci.
Aggirare l’ostacolo non significa rimandare o evitare il problema.
Significa compiere un’azione che apparentemente non ha nulla a che vedere con la soluzione del problema, ma che ha come risultato quello di spostare o annullare il problema stesso.
Da cui la soluzione viene da sè.
Per individuare soluzioni trasversali attraverso il pensiero laterale, occorre anzitutto allargare la prospettiva: guardare a fianco appunto.
In questo modo si può vedere il problema da un’angolatura diversa e si aumentano le possibilità di azione.
“Il pensiero laterale procede da una serie di fatti, non da supposizioni.
Il pensiero laterale di fatto non fa presupposti, anzi i presupposti iniziali limitano le possibilità di soluzione.
Edward De Bono identificò  quattro fattori critici associati al pensiero laterale:
riconoscere le idee dominanti che polarizzano la percezione di un problema;
cercare maniere differenti di guardare le cose;
allentare il controllo rigido del pensiero lineare;
usare ogni chance per incoraggiare altre idee:
L’esempio classico di una persona che usa il pensiero laterale è il personaggio di Sherlock Holmes, il detective nato dalla fantasia di Sir Arthur Conan Doyle.
La sua straordinaria capacità di trovare la soluzione a problemi altrimenti insolubili era dovuta alla sua abilità nell’osservare i fatti di una situazione, senza fare presupposti iniziali.
Usando il pensiero laterale, egli spezzettava gli elementi di un problema o di una situazione e li riordinava in un modello apparentemente casuale, per arrivare a una visione diversa della situazione e quindi a una possibile soluzione.
Il pensiero laterale perciò può definirsi come puro ragionamento deduttivo. 
Il Dottor Watson invece agiva procedendo lungo le linee del pensiero cristallizzato basato su preconcetti…
Il pensiero laterale è creativo e dinamico ed incorpora le proprietà del pensiero associativo, quindi la capacità di raccogliere e riallineare significati, così come il pensiero lineare comporta l’abilità di procedere lungo una linea di pensiero fino a una conclusione.
Un altro esempio riguarda un fatto realmente accaduto alla Gerber, la famosa multinazionale che produce cibi per bambini.
Negli anni 60 la Gerber lanciò un nuovo prodotto rivolto al mercato di un paese africano in cui le madri avevano estremo bisogno di cibo per bambini…era stato studiato nei minimi dettagli affinché la sua convenienza e qualità ne garantissero l’immediato successo, ma… le vendite non riuscivano a decollare.
I dirigenti e il management, usando dei processi di pensiero lineare, ritennero che il prodotto non fosse stato promosso abbastanza e stabilirono di intraprendere ulteriori campagne pubblicitarie… non riuscirono comunque a venirne a capo.
Erano sul punto di abbandonare il progetto.
Ed ecco la soluzione trasversale: cambiare le etichette! … la questione si risolse infatti prendendo atto che nella cultura della popolazione locale, prevalentemente analfabeta, i prodotti alimentari venivano presentati con etichette raffiguranti il loro contenuto.
Dal momento che la Gerber esponeva le sue pappette mostrando un bambino sorridente… non avrebbe mai potuto convincere nessuno a nutrire i propri figli con carne di bambino!
Disegnando sulle etichette mucche, vitelli, pollo ecc.. le pappette andarono a ruba !
Muhammad Yunus il banchiere dei poveri (ideatore e realizzatore del microcredito, ovvero di un sistema di piccoli prestiti destinati ad imprenditori troppo poveri per ottenere credito dai circuiti bancari tradizionali. Per i suoi sforzi in questo campo ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006) e Miloud Oukili il clown dei ragazzi di Bucarest (creatore de la Fundatia PARADA, una fondazione dedicata al recupero dei bambini e dei ragazzi che vivono nei sotterranei della città) si rifanno quotidianamente alle tecniche del pensiero laterale.
Il primo aveva un problema non banale: far smettere la guerriglia in una regione del Bangladesh, il suo amato paese.
Prima di lui molti tentarono con accordi o boicottaggi.
Yunus ci riusci così: arruolo i guerriglieri, per lo più ragazzi giovani e bisognosi di motivazioni, nella sua banca.
Offriva a semplicemente a loro l’opportunità di un lavoro stabile e con contenuti sociali !!
La guerriglia terminò gradualmente per mancanza di “personale”
Miloud, invece, ha il merito di aver reintrodotto alla vita sociale numerosi bambini di strada che popolano la capitale rumena, non inducendoli ad entrare negli orfanotrofi o riportandoli nelle loro famiglie violente, ma trasmettendo loro la sua arte e i trucchi del suo mestiere di clown.
Da teppisti di strada in artisti di strada.
Le tecniche del pensiero laterale aiutano le persone ad arrivare a un nuovo livello di pensiero creativo.

Felicità?

Potremmo stare ore a discutere sulla felicità.
La felicità è un modo di essere: non c’è nessun motivo per essere felici, nel senso che non c’è nessun motivo per non esserlo.
Quello che forse spesso ci manca è un qualcosa di importante per andare avanti nella vita di tutti i giorni, per decidere cosa fare, quasi per poter “giustificare” il fatto di essere felici, anche se non ci sarebbe bisogno di giustificazioni…
Secondo questo ragionamento, siccome la nostra vita va avanti come la impostiamo noi, la nostra felicità dipende da noi, e quindi ognuno di noi ha il suo particolare tipo di felicità: non esiste “la felicità”, esiste la tua felicità, la mia felicità, la felicità di ciascuna singola persona che vive nel mondo.
E questo non è bellissimo? Che soddisfazione ci sarebbe se fosse già tutto definito, già tutto fatto, se ci fosse una “soluzione unica”? Il bello della vita è appunto viverla, correndo magari il rischio di sbagliare.
Se proprio vogliamo scovare un sistema per essere più felici, o per  non sentirci “colpevoli” di essere felici (che comunque è un po’ da paranoici), secondo alcuni un modo potrebbe essere aiutare gli altri ad essere più felici.
Chi lo sa, magari può bastare aiutare una persona sola a prendere coscienza che, soddisfatti i bisogni fondamentali, sicuri che nessuno soffra per colpa nostra,  non c’è proprio motivo per non essere felici!
L’importante è provarci, iniziando a prendere le cose con lo spirito giusto.
Non facciamoci imporre o suggerire dagli altri quali cose dobbiamo fare o pensare per essere felici.
Il processo di globalizzazione sta cercando di globalizzare anche la felicità, ma non siamo tutti felici nello stesso modo.
Nella storia, il dominio di una certa idea di felicità ha creato tensione, odio e paradossalmente infelicità.
E questo si sta ripetendo: i mezzi di comunicazione di massa tendono a proporre un’idea standard di felicità, una felicità in scatola che spesso finisce per violentare l’idea di felicità personale, e anche l’idea di felicità propria di altre culture, scatenando violenza ed incomprensione invece di creare arricchimento.
Non solo.
Se qualche secolo fa la felicità era un privilegio di pochi e dopo la Rivoluzione Francese un diritto, oggigiorno la felicità è quasi un dovere, anzi un obbligo.
Rifiutiamo la sofferenza, la morte, la fatica, il sacrificio, come se non fossero altre facce della felicità, come se i momenti più belli della nostra vita non venissero spesso dopo periodi di sacrificio e magari anche dolore.
Eppure la modernità dovrebbe rendere più facile l’essere felici. Stiamo fisicamente bene, abbiamo mille possibilità di divertimento, di socializzazione e comunicazione. Non solo la tecnologia ci aiuta, ma anche il maggior tempo libero a disposizione. Eppure la tentazione di chiuderci in noi non è mai stata così forte: non possiamo vivere senza gli altri ma l’incontro con gli altri ci mette spesso in difficoltà. Persone, visioni della vita e del mondo, culture, religioni. E un senso di individualità esasperante, una cultura o pseudocultura che identifica la felicità con la completa soddisfazione dei capricci individuali.
Che felicità è quella che mette i piedi sui sentimenti, sulla fiducia e sulla felicità degli altri?
Ma è così difficile essere felici? E serve proprio essere felici?
Ma sì, ogni tanto fa bene essere felici con sé stessi, sentirsi bene e un pochino soddisfatti. Ogni tanto serve sentirci a posto con il resto del mondo. Per farlo forse serve comprendere ed accettare sé stessi, serve comprendere ed accettare gli altri, con tutta la dose di pazienza conseguente… Serve capire cosa possiamo fare, cosa è giusto fare per noi e per gli altri. Serve anche capire quando fermarci un po’ e non fare proprio niente.
Il concetto stesso di felicità è di proprietà del pensiero occidentale, come pure il concetto di meta da raggiungere.
Nel cinese antico (in realtà non esiste una sola lingua “cinese” ma sarebbe un lungo discorso) non esistono parole per “felicità” o per “meta”, “obiettivo”… In effetti alcuni studiosi spiegano questo con il fatto che i cinesi, più saggi di noi o forse solo più fortunati, hanno schivato fin dal principio (e quindi poi di conseguenza anche nelle opere dei filosofi: Zhuang-zi o Chuang-tzu, Laozi o Tao tê ching, ecc), il concetto di “felicità” e quindi anche quello di “infelicità”, che vanno a braccetto, e hanno invece privilegiato il concetto di equilibrio, di nutrire giorno per giorno la propria vita senza eccessi, senza aver bisogno di una meta… cosa molto comoda visto che se ci pensiamo bene permette di essere soddisfatti ogni giorno invece che stare in ansia fino a quando non si raggiungerà la agognata meta.
I concetti felicità / meta infatti hanno parecchi svantaggi. Primo bisogna vedere se la si raggiungerà questa meta. Secondo molte volte una volta raggiunta questa meta la “felicità” finisce presto, e si ha bisogno di un’altra meta.

In effetti siamo un po’ sfortunati ad essere nati occidentali… il pensiero occidentale (o meglio il pensiero nato dalla lingua greca / latina) cerca mete, felicità, seziona e spacca il capello in quattro, il pensiero orientale (o meglio il pensiero nato dalla lingua cinese) dice essenzialmente stai tranquillo, agitati di meno, pensa a quello che stai facendo oggi. In effetti il pensiero orientale più ampio che si riferisce al Tao / Lao-tse trova eccessivo anche Confucio, che aspirando alla “virtù” si pone già una meta e quindi si agita già troppo. Secondo i contestatori di Confucio, nemmeno a dirlo, aspirando “troppo” alla virtù si rischia di non raggiungerla, e, anzi, di fare del danno.
Il che se ci pensiamo ha senso: quante persone fanno o hanno fatto nella storia danni più o meno terribili, partendo da buoni principi e buone intenzioni…
Insomma per esempio anche “aiutare gli altri” può essere un gran danno, se non hanno nessuna voglia di essere aiutati.
Comunque sia, questo pensiero occidentale ora invade l’oriente… ma l’occidente a volte non è molto soddisfatto…  quindi mentre una parte dell’occidente “invade”, un’altra si interessa anche al pensiero orientale.
Ci si sente un po’ una mosca bianca nello scrivere la prima parte di questa pagina (non c’è nessun motivo per essere felici, nel senso che non c’è nessun motivo per non esserlo)… che forse è il caso di essere contenti che oggi c’è il sole, o è una bella serata, pensare un po’ di più alle cose di tutti i giorni e rincorrere meno la carota e la paura del bastone.
D’altra parte a volte è bello avere qualche meta da inseguire, qualcosa per cui valga la pena.
Forse il concetto potrebbe essere quello di scendere dal treno che molto spesso ci trasporta, per fare un nostro cammino a piedi: più tranquilli, più in armonia con il mondo, senza rinunciare a qualche meta ma godendoci di più il viaggio…
Cominciando a parlare per paragoni come i cinesi quindi per quanto riguarda viaggiare il  cervello può viaggianre molto.
(www.Paperinik.com)

Siamo ottimisti o pessimisti?

Alcune persone, quelle che si arrendono facilmente di fronte alle proprie sventure, dicono in genere: «È colpa mia, durerà per sempre, andrà tutto in rovina».
Altre, quelle che resistono alle avversità, si dicono: «E colpa delle circostanze, passerà presto; del resto, ci sono molte altre cose nella vita».
Il  modo abituale di spiegare gli eventi negativi è qualcosa di più delle parole che diciamo a noi stessi, è un’abitudine di pensiero che apprendiamo nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza; deriva direttamente dalla visione che abbiamo del nostro posto nel mondo, a seconda se pensiamo di essere una persona di valore e meritevole, o indegna e immeritevole.
È ciò che ci qualifica come ottimisti o pessimisti.
Le persone che si arrendono facilmente credono che le cause degli eventi negativi che capitano loro siano permanenti.
Pensano che tali eventi dureranno per sempre e che incideranno permanentemente sulla loro vita.
Le persone che resistono all’impotenza, credono che le cause degli eventi negativi siano temporanee.
Se pensiamo agli eventi negativi in termini di sempre mai, e li vediamo come elementi costanti, abbiamo uno stile pessimistico e permanente.
Se pensiamo ad essi in termini di  talvolta e ultimamente, se li qualifichiamo con aggettivi e li attribuiamo a condizioni temporanee, abbiamo uno stile ottimistico.
Il fallimento rende ognuno di noi temporaneamente impotente.
È come un pugno allo stomaco, fa male, ma poi passa.
In alcune persone il dolore sparisce pressoché istantaneamente, per altre, il dolore rimane; brucia, fa arrabbiare, si trasforma in rancore.
Le persone che credono che gli eventi positivi abbiano cause permanenti sono più ottimiste delle persone che credono che essi abbiano cause temporanee, le perone pessimiste li imputano a cause transitorie.
Le persone che credono che gli eventi positivi abbiano cause per­manenti si impegnano ancora di più dopo che hanno avuto un successo.
Le persone che attribuiscono ragioni temporanee agli eventi positivi possono arrendersi anche quando hanno un successo, ritenendo che esso sia imputabile alla fortuna.
Alcune persone, poi, riescono letteralmente a chiudere in un cassetto i loro problemi e ad andare avanti anche quando subiscono un’avversità in un campo importante della loro vita, ad esempio il lavoro o un legame affettivo. Altre soffrono per ogni cosa;  fanno di tutto una catastrofe.
Quando un aspetto della loro vita fallisce, tutto va in rovina.
Ciò significa che le persone che danno spiegazioni universali ai loro fallimenti, quando esperiscono l’insuccesso in un’area, si arren­dono anche su ogni altra cosa.
Viceversa, le persone che danno spiegazioni specifiche possono diventare impotenti nel campo in cui hanno sperimentato l’insuccesso, ma mantenersi attive e risolute in altri ambiti della vita.
L’ottimista crede che gli eventi negativi abbiano cause specifiche e che gli eventi positivi si manifesteranno in ogni cosa che farà; il pessimista crede che gli eventi negativi abbiano cause universali e che gli eventi positivi siano causati da fattori specifici.
Trovare cause temporanee e specifiche alle avversità è l’arte della speranza.
Le cause temporanee limitano l’impotenza nel tempo e le cause specifiche limitano l’impotenza alla situazione di origine.
Attribuire cause permanenti ed universali alle avversità della vita è tipico della disperazione.
Le persone depresse spesso si assumono la responsabilità degli eventi negativi in maniera ingiustificata.
In che modo concepiamo le cause delle avversità, piccole e grandi, che ci accadono?
Se la nostra natura non è proprio ottimista, cerchiamo almeno di essere possibilisti.

Alla ricerca del proprio benessere

“Non Si nasce liberi, lo si diventa. Non basta sperare, è necessario osservare con una certa disciplina per realizzare i propri sogni” (Biorn Larsson)Lavorare per consumare non rende felici, ma come uscire da questo, che per molti, è un vicolo cieco?
Incontro gente “felice” della propria vita, incontro persone che vorrebbero “riprendersi” la propria vita; non dico che facciano le stesse cose e vivano nel medesimo contesto, ma le abitudini, gli obblighi, il consumo, sono molto simili.
Un’epoca migliore di questa per il nostro Paese non si era mai vista (nonostante la crisi); fino alla prima metà del secolo scorso c’erano fame, guerre, carestie, malattie ed epidemie, per cui, in definitiva, non ci sarebbe da lamentarsi.
Eppure con la salute, con la pace e col benessere sono sopraggiunte anche l’alienazione e l’omologazione (e ora anche l’insicurezza) e sembra che non vi sia alternativa a una vita spesa a lavorare, produrre, indebitarsi e consumare, ripetendo gesti privi di senso, per troppo tempo, per una vita intera. (Simone Perotti)
Nei paesi ricchi il consumo consiste in persone che spendono soldi, che non hanno, per comprare beni che non vogliono, per impressionare persone che non le amano (Joachim Spangenberg).
Il risultato di tutto questo avanzare a occhi chiusi, accettare le regole imposte dal profitto e dal consumo, è un benessere fittizio.
È di certo un benessere economico, ma non sempre in grado di produrre lo “star bene”, non agevolando né l’armonia né l’equilibrio interiori.
I prodotti, la loro accessibilità, la loro apparente convenienza, sono sufficienti a farci uscire di casa, a percorrere a passo d’uomo strade intasate o a prendere mezzi pubblici schiacciati come sardine, incuranti del costo esistenziale, e sociale, che questo comporta, giungendo infine a schiacciare in un angolo lontano sentimenti e relazioni.
“Ognuno di noi è artista della propria vita: che lo sappia o no, che lo voglia o no, che gli piaccia o no” (Zygmunt Bauman).
Dobbiamo avere quella capacità e quella lucidità di vedere le cose come sono veramente, e non come ci raccontiamo che siano.
Il cambiamento vero, quello possibile, che non genera ripensamenti e frustrazioni, pentimenti e amarezze, non nasce dal disagio.
In ogni epoca di crisi morale, di spiazzamento sociale, si tende a sovrastimare l’effetto di qualche soluzione taumaturgica, ma la ricetta per la felicità non la possiede nessuno, però esistono momenti e condizioni felici.
Esiste la possibilità di intraprendere un percorso di comprensione, di coscienza di sé, che offra maggiori chanche di armonia e leggerezza.
Non è più il tempo di fare sogni che non si possono realizzare, ma di concretizzare i sogni che potremmo realizzare, facendoli diventare veri il prima possibile, per poterceli godere e poterne sognare altri, imparando dai nostri errori, regalandoci armonia ed equilibrio, quindi serenità e benessere.