La qualità dipende dalla situazione

Tutti, da anni, parliamo di qualità.

Ricordo che tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90 vi era gran fermento intorno a concetti quali “qualità reale” e “qualità percepita”.

Qualità è un concetto astratto, utilizzato in innumerevoli contesti, e con diversi significati.

L’impressione che spesso ci formiamo circa una “buona qualità”, piuttosto che una “cattiva qualità”, non sempre dipende da fattori oggettivi.

Quando la definiamo in relazione a qualunque contesto (prodotto, servizio, relazione) tendiamo a descrivere sia qualcosa di “specifico”, sia qualcosa di “emotivo”.

Numerosi fattori ne influenzano il giudizio:

  • Nello stesso paese gli standard qualitativi di un prodotto sono giudicati in modo diverso da persone che hanno esperienze, educazione, età e provenienze sociali dissimili.
  • Lo standard qualitativo di un prodotto/servizio può essere giudicato differentemente dalla stessa persona in diversi momenti, a seconda della situazione, dello stato d’animo e dei bisogni.
  • Lo stesso prodotto e servizio possono soddisfare aspettative completamente diverse; per questo il giudizio sulla qualità dipenderà dalle aspettative in una data situazione.
  • Le persone hanno standard qualitativi differenti.
  • Lo standard qualitativo che ci si aspetta dagli altri può variare a seconda del nostro interlocutore
  • La qualità che ci aspettiamo dagli altri non è sempre come quella che si chiede a se stessi.

Quando gli esperti parlano di qualità si riferiscono sempre a quella dei prodotti e dei servizi.

Per gli uomini del marketing qualità significa soddisfare le aspettative e le richieste del cliente.

Per alcuni la qualità è determinata da fattori esterni (le aspettative dei clienti), per altri dalla rispondenza agli standard aziendali (requisiti che personale e reparti stabiliscono per se stessi e per gli altri).

Aspettative e richieste, poi, possono essere relative alle qualità tecniche di un prodotto o servizio, piuttosto che all’atteggiamento umano, ovvero ai comportamenti di chi realizza e fornisce un prodotto o servizio.

L’importanza del fattore umano è ancora troppo spesso sottovalutata.

Quindi l’esperienza qualitativa, sia essa buona, che cattiva, dipende da diversi fattori:

  • dalla situazione
  • da chi giudica la qualità
  • dai criteri adottati
  • dalle aspettative

Anche se è difficile descriverla, raramente avremo dubbi di fronte ad una buona o cattiva qualità, e comunicheremo i nostri punti di vista agli altri, anche se soggettivi ed influenzati dalle circostanze.

Se la qualità di un prodotto o servizio saranno uguali o superiori alle nostre aspettative, la giudicheremo come buona, in caso contrario la giudicheremo cattiva.

La persona di contatto attenta (vendita o assistenza), che in definitiva è la nostra controparte quando siamo clienti, sa che insoddisfazione, soddisfazione o entusiasmo saranno gli stati d’animo con cui misureremo la nostra esperienza con loro e con il loro prodotto e servizio.

Ecco perché è strategico conoscere e presidiare i fattori “soggettivi” che fanno capo ad ogni cliente, in quanto variabile preponderante per mirare al maggior successo, e prevenire, o quantomeno limitare, eventuali insuccessi.

Erogare un servizio

Il lancio di un nuovo prodotto o servizio costituisce, da sempre, per le aziende, un evento estremamente critico in quanto, se da una parte rappresenta un’opportunità di riposizionamento competitivo sul mercato, dall’altra comporta livelli di investimento e di impegno del management così rilevanti, da renderne impossibile una seconda applicazione in tempi ravvicinati, soprattutto in caso di fallimento.

In termini di “Customer Satisfaction” è l’immagine stessa dell’azienda che viene messa in gioco con la presentazione di un nuovo prodotto o servizio.

Tali eventi, infatti, polarizzando l’attenzione all’interno del mercato di riferimento, determinano automaticamente un aumento delle aspettative dei Clienti, reali e potenziali.

Occorre pertanto fare in modo che i livelli di percezione delle performance dei nuovi prodotti, o servizi, non solo risultino superiori a quelli dei prodotti/servizi sostituiti, ma che  siano anche assolutamente adeguati alle attese suscitate.

L’estrema importanza di questo aspetto è tanto più accentuata dal fatto che un fallimento, anche parziale, nell’obiettivo di innalzare la soddisfazione dei Clienti, non potrà essere recuperato nel breve periodo.

Ciò significa basarsi su 3 assi portanti

  • Il Cliente
  • Il contesto esterno
  • L’azienda

necessariamente integrati tra loro per il raggiungimento ed il mantenimento nel medio – lungo periodo delle posizioni di vantaggio competitivo.

Si tratta in sostanza di trasformare le informazioni provenienti dai Clienti, e raccolte attraverso i diversi canali di ascolto in informazioni utili per il business, in processi di miglioramento.

L’analisi sistematica della loro soddisfazione costituisce un momento conoscitivo di importanza fondamentale ai fini dell’acquisizione e del consolidamento di un vantaggio competitivo.

Sono in definitiva risorse da cui attingere conoscenze ed aspettative, ed in quanto portatori di “valore patrimoniale”, vengono riconosciuti come un bene da valorizzare nel tempo.

Nelle attività di ogni azienda si deve dunque mettere “il Cliente al primo posto”.

L’offerta di un prodotto-servizio si fonda sulla capacità di saper analizzare in profondità le aspettative e le preferenze della propria Clientela.

E’ proprio dall’ascolto dei Clienti che vengono delineati i prodotti ed i servizi che caratterizzano l’offerta e possono essere individuate aree di sviluppo tali da costituire nuove opportunità di business.

Questi ultimi cercano soluzioni, ed è su questo che si dovrebbero focalizzare i nostri sforzi, ascoltandone le esperienze nei vari momenti di contatto con un fornitore, al fine di poter avere un efficace strumento di misurazione ed orientamento.

Dalle percezioni dei propri Clienti si possono ricavare una serie di indicazioni utili per migliorare i processi di erogazione, individuando criticità nel sistema d’offerta che ne possono caratterizzare il limitato successo, onde evitare gli oneri di aggiustamenti successivi.

In definitiva, ciò che occorre, è un buon sistema d’ascolto.

L’attimo in cui si vive

La leadership di solito è monopolio di chi non ha paura di alzarsi in piedi e far valere le proprie ragioni; uno dei più grossi problemi della gente adulta sono le preoccupazioni e lo stress che ne deriva.

David Seabury, psicologo ed autore nel 1937 di  un “testo cult” famoso (pluritradotto e molto diffuso, ma oramai introvabile) “Come trattare i tiranni e le tirannie della vostra vita”, sui temi dell’autogestione per affrontare efficacemente i problemi e le pressioni egoisticamente imposteci dagli altri, soleva dire: “siamo capaci di fare tesoro dell’esperienza, più o meno come un tarlo è capace di danzare sulle punte”.

Qual è il risultato?

Sempre più posti letto negli ospedali sono occupati da gente affetta da disturbi nervosi: occorrono un profondo desiderio di imparare ed una ferma volontà volte a vincere lo stress.

L’apprendimento è un processo attivo: solo facendo si impara.

Ogni volta che le preoccupazioni e le paure del domani ci angustiano dovremmo far ricorso a 26 parole che il filosofo scozzese Thomas Carlyle scrisse nei primi anni del 1800 “Il nostro compito principale non è di vedere quel che si profila indistinto al lontano orizzonte, ma di fare quel che abbiamo a portata di mano”.

La regola del qui e ora è più che mai indispensabile per gestire le proprie ansie.

Occorre innanzitutto “eliminare il passato” i suoi rimpianti ed i suoi rimorsi, se ne abbiamo fatto tesoro bene, altrimenti inutile crogiolarsi.

Il fardello del domani, aggiunto a quello di ieri, farebbe vacillare chiunque cammini nel presente.

Poi occorre eliminare il futuro esattamente come si è fatto col passato: il futuro è oggi.

Spreco di energia, preoccupazioni, disturbi nervosi accompagnano chi si preoccupa e si tormenta per l’avvenire; il modo migliore per prepararsi il domani consiste nel concentrarsi con tutta la propria intelligenza e con tutto il proprio entusiasmo al fine di portare a termine nel migliore dei modi il lavoro odierno.

Il che non significa assolutamente rinunciare a formulare progetti e programmi, bensì padroneggiarli, anziché subirli, siano essi semplici o complessi, immediati o di ampio respiro.

Non c’è alcun dubbio, tutti dobbiamo pensare al domani, fare anche piani dettagliati per prepararci ad ogni evenienza, ma non dobbiamo assolutamente concederci il lusso di stare in ansia!

Se ci lasciamo prendere la mano dalla situazione è finita.

Quando ci alziamo la mattina ci sono centinaia di compiti che ci attendono, ma se non cerchiamo di sbrigarli uno alla volta manderemo in crisi il nostro organismo: una cosa alla volta, proprio come recita una vecchissima storiella ancora in voga nel “time management”: Come è possibile mangiare un elefante intero? … Un pezzettino alla volta!

Ci troviamo tutti, in questo preciso istante, all’incontro tra due “eternità”: l’immenso passato che è sempre esistito, ancor prima di noi, e l’immenso futuro che sta sorgendo nell’attimo in cui si parla, e che esisterà anche dopo di noi.

Nessuno di noi può vivere a cavallo tra le due “eternità”, nemmeno un solo istante; cercando di farlo possiamo soltanto arrivare allo sfacelo.

Viviamo e godiamo il tratto di tempo in cui ci è concesso di vivere.

Ognuno è in grado, giorno per giorno, di reggere il proprio peso, di compiere il proprio lavoro per quanto pesante sia, di vivere piacevolmente, pazientemente e amorosamente.

E’ tutto qui il senso della vita; ogni giorno per il saggio è una vita nuova.

Il poeta latino Orazio, trent’anni prima della nascita di Cristo, scrisse parole che hanno un sapore di modernità “Felice chi, e felice soltanto   Chi può chiamar sua l’ora che volge  Chi con fermezza può dire   Che m’importa il domani, se ho vissuto l’oggi?”

Dice il bambino: quando sarò un ragazzo grande … Dice il ragazzo: quando sarò una persona adulta … Dice l’adulto: quando sarò sposato …  quando andrò in pensione … Poi in pensione volge lo sguardo al passato e comprende, speriamo non troppo tardi, che la vita sta tutta nell’attimo in cui si vive.

L’oggi è la cosa più preziosa che abbiamo, ed è anche la più sicura.

Appunti di negoziazione

Di negozio, negoziato, negoziazione si parla in più ambiti, soprattutto in quello economico commerciale, ma il concetto ha risvolti ed implicazioni tali che può tranquillamente essere usato in quello più generale delle relazioni umane.

Vivere insieme, da un certo punto di vista, significa negoziare anche quando non ce ne accorgiamo.

La negoziazione è uno strumento fondamentale  che,  per  riuscire  ad  ottenere  dagli altri ciò che ci

aspettiamo, ci mette in relazione con essi in forme che possono essere le più diverse.

Negoziare non è un modo per vincere o perdere, ma affinché il negozio abbia successo si richiede la conoscenza di come la pensano gli altri e quindi sono richiesti il rispetto e la comprensione dei loro punti di vista.

Bisogna superare la convinzione per cui un negoziatore abile è una persona priva di scrupolo e di etica: difatti nella nostra cultura la negoziazione è spesso associata all’inganno ed all’astuzia.

Abbiamo due tipi di negoziazione, quella in cui le parti competono nella distribuzione di un valore che viene considerato fisso ed immutabile, per cui il successo di una parte avviene a discapito dell’altra.
Poi vi è quella in cui le parti collaborano per ottenere i massimi benefici possibili, attraverso l’integrazione dei rispettivi interessi, in un accordo soddisfacente per tutte le parti, avendo come scopo quello di creare un valore aggiunto destinato ad essere ridistribuito per soddisfare pienamente le parti.

In questo caso il valore viene aumentato attraverso la condivisione delle informazioni a differenza del primo caso dove si tende a nasconderle; il presupposto sta nell’ atteggiamento mentale che su assume verso le persone con cui si è in relazione.

Vi è una strategia tipica di un rapporto conflittuale e competitivo che ha come scopo quello di sconfiggere l’avversario.

L’interlocutore viene considerato un antagonista e difficilmente il negoziato va in porto con la piena soddisfazione di entrambe le parti (quando si tratta di individui che hanno grossi conflitti interiori spesso la strategia usata è basata sul voler far  perdere  gli altri a tutti i  costi, anche a  costo di avere

meno per sé.)

C’è poi la strategia di chi cerca sinergie con gli altri allo scopo di perseguire la reciproca soddisfazione: è l’atteggiamento ottimale in ogni rapporto di comunicazione sia in campo personale che professionale.

Ogni negoziato si fonda su due livelli, sulla sostanza e sulla procedura per raggiungere l’accordo. Determinante è il modo con cui si negozia.

Appare necessario far leva sugli interessi reali delle parti , anziché sulle posizioni e partire dal presupposto che si sta trattando con esseri umani e quindi bisogna tenere in considerazione quelle che sono le loro emozioni, interessi e bisogni.

Quando si discute secondo le posizioni le parti tendono a rinchiudersi, facendone quasi una questione personale.

Il risultato può essere tanto un accordo che la rottura dei rapporti; la trattativa diventa uno scontro di volontà cercando di far cambiare opinione al nostro interlocutore.
L’aspetto negativo è che si danneggiano i rapporti fino a litigare ed a interromperli.

Errata appare anche la trattativa morbida, quando si vuole mantenere ad ogni costo buono il rapporto anche stipulando un accordo non soddisfacente.

Questa rende vulnerabili verso coloro che praticano la trattativa dura per cui si è costretti continuamente a fare delle concessioni.

Ognuno di noi vede il mondo secondo la propria prospettiva ed in base al suo vantaggio personale. L’errore che spesso viene commesso è di confondere il nostro punto di vista con la realtà oggettiva: questo è causa di malintesi e di pregiudizi

L’arma vincente consiste nel riuscire a vedere la situazione così come la vede il nostro interlocutore, sapendo bene che comprendere il punto di vista dell’altro non vuol dire, per forza, condividerlo.

Manager oggi

Quando si parla di management il pensiero corre subito ai grandi manager, persone vincenti e ricche, che amministrano grandi capitali.

Il termine management significa “direzione, gestione, amministrazione”.

Una gestione finalizzata e coordinata al raggiungimento dell’obiettivo e che consta di quattro momenti fondamentali: programmazione, organizzazione, direzione e controllo attuativo.

Di giorno in giorno ci confrontiamo con più organizzazioni e di molte di queste facciamo anche parte: la famiglia, gli amici, i gruppi professionali, politici, di lavoro, aziende di qualsiasi dimensione pubbliche e private, gruppi finanziari, ecc.

In ognuna di queste la “competenza manageriale” offre una chance in più a chi è in grado di giovarsene; la competenza nel management è applicabile a tutti i fattori della vita.

Si potrebbe dire che più una persona è dotata di capacità manageriali, più è probabile che, gestendo prima di tutto se stessa, e il suo sviluppo professionale, riesca a migliorare in ogni aspetto il suo standard di vita.

Un buon manager deve essere in grado di fornire risultati in differenti situazioni di lavoro, anche diversissime tra loro, e se avrà fornito un buon management ad una determinata azienda, è molto probabile possa fornirne uno altrettanto valido ad un’altra.

Ma cosa vuol dire essere manager oggi?

L’immagine del manager si è profondamente modificata nel corso dell’ultimo secolo seguendo, come è naturale, l’evoluzione culturale, tecnologica ed economico-finanziaria della società.

Poco alla volta, soprattutto a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso un mercato sempre più competitivo ha obbligato molti manager, per rimanere a galla, a divenire molto aggressivi, sensibili ai continui mutamenti sociali, determinati al decidere in tempo reale e, soprattutto, immolati agli obiettivi di budget.

Oggi questi manager rampanti, un poco alla volta, vanno scomparendo, bruciati soprattutto per l’interesse eccessivo per la carriera e dalla rincorsa di risultati personali che permettessero loro di vendersi bene sul mercato delle teste.

Questo li faceva lavorare con un’ottica di breve periodo, cercando brillantemente l’interesse immediato dell’azienda, ma creando il più delle volte le basi per infauste prospettive in fasi temporali più ampie, bruciando risorse e riserve di risorse.

I manager più brillanti, quelli su cui le proprietà fanno affidamento, sono coloro che hanno saputo realizzare la crescita a breve, non deludendone le aspettative di lungo periodo, lavorando soprattutto per l’azienda con l’obiettivo di consentirle di reggersi da sola e progredire.

Parliamo di quei manager che hanno una spiccata capacità di leadership, che sanno imporsi grazie alle proprie competenze relazionali, che non hanno bisogno della tutela di rigide gerarchie, e la cui stabilità nel ruolo è legata alla sicurezza morale e materiale che riescono a fornire all’azienda.

Il dialogo come strumento per conoscere gli altri e se stessi

Si può dire che “in principio è la relazione”, il rapporto io – tu come espressione a tutto tondo del dialogo, dell’incontro tramite la parola.

Gli esseri umani entrano in relazione tra loro nel dialogo, tramite la parola che fa da ponte tra un io e un tu.

Due soggetti mettono a confronto, nel dialogo,  le loro dinamiche esistenziali, il loro mondo culturale, i loro vissuti quotidiani.

Il dialogo e la relazione, però, si impongono con tutta la loro carica positiva e creatrice solo nella misura in cui la parola di un soggetto non sia prevaricante nei confronti dell’altro.

In pratica, la mia parola non deve invadere in modo corrosivo lo spazio esistenziale del mio interlocutore, bensì deve porsi in ascolto anche della sua parola.

Non a caso Heidegger dice che “la parola autentica è il silenzio”, esprimendo un chiaro riferimento alla capacità del saper ascoltare.

L’affermazione di Heidegger, adattata al nostro discorso, viene a significare una vera relazione proprio in quanto “nel mio silenzio faccio in modo che l’altro possa esprimere se stesso, le sue convinzioni, la sua visione del mondo”.

Questo modo di pormi contribuisce al mio arricchimento, proprio perché donando all’altro il mio silenzio, lo rispetto nella sua dignità e metto a confronto il mio mondo con il suo, in una continua tensione dialettica.

Le finalità ultime del dialogo e della relazione consistono nella ricerca del bene comune, di un punto di contatto, che, pur nella diversità delle opinioni, miri a costruire un società dove i “dialoganti” possano godere degli stessi vantaggi.

L’uomo è tale nella misura in cui si rapporta all’altro in uno scambio di domande e risposte su tutto ciò che lo circonda.

Il dialogo, infatti, presuppone un io e un tu: potremmo chiamarlo uno “sfregamento di anime.”

Il termine “sfregamento” rende assai bene l’idea di un confronto forte, anche ruvido, ma sempre finalizzato alla ricerca di un sapere autentico, dove lo scambio di domande e risposte mira a far progredire nella verità le anime dialoganti.

Il dialogo mira, allora, “a spogliare l’anima” dai pregiudizi e dalle apparenze per condurla a contemplare ciò che è “bello e buono”.

Volendo ricorrere all’ausilio degli antichi filosofi, ricordiamo Platone che, facendo riferimento al maestro Socrate, asserisce come l’educazione sia una scienza che ha per fine l’anima, che va “curata” tramite il dialogo filosofico.

Questo, però, è possibile solo partendo dalla conoscenza di se stessi.

Platone soleva dire: “se ci conosceremo, noi sapremo forse anche qual è la cura che dobbiamo avere di noi stessi; se non ci conosceremo, non lo sapremo mai”.

La qualità paga

La qualità di un prodotto è “buona” se soddisfa o supera le nostre aspettative.

La qualità è “scadente” se avviene il contrario.

Troppo spesso siamo delusi, le nostre aspettative non sono soddisfatte, e ci sembra che la qualità di un prodotto sia decisamente bassa, quando merci o servizi non vengono forniti puntualmente, sono difettosi o lasciano molto a desiderare.

La pasta è fredda, la birra è tiepida, la bistecca è dura, e per non farci mancare niente il cameriere è apatico e non finge neanche di darsi da fare.

Così le cose non funzionano.

Ci sono molte ragioni per una qualità insoddisfacente.

I prodotti e i servizi sono diventati così complessi, che è inevitabile che si verifichi qualche errore nella catena (sia essa produttiva, piuttosto che distributiva).

Ai dipendenti viene spesso cambiato ruolo senza fornire loro una formazione adeguata.

Il poteri pubblici emanano normative sempre più complesse, e la crescente specializzazione spesso impedisce di vedere il quadro d’insieme.

A tutto ciò fanno riscontro un crescente interesse ed una pretesa di qualità.

Ci sarà sempre chi comprerà articoli per il solo prezzo, convinto di fare un affare, ma più il prezzo è basso, e più ci avviciniamo alla non qualità, sia nei prodotti (pile per telefonini che scoppiano, giochi per bambini che rilasciano sostanze tossiche, ecc.) che nei servizi (taglio e messa in piega a 6 euro con ustioni garantite, ecc.).

Se clienti ed utenti diventano sempre più esigenti e non sono disposti ad accettare una qualità inferiore a quella degli attuali standard, non debbono sempre rincorrere i prezzi della non qualità.

E’ giusto che i cittadini chiedano al settore pubblico di migliorare i suoi servizi (dopotutto il settore pubblico è come una qualsiasi società che funziona con i soldi dei clienti) così come è giusto che i disastri provocati dall’errore umano esigano norme di sicurezza più severe per le centrali nucleari, per le industrie chimiche, per le società di trasporti e per le altre imprese al alto rischio, finanza compresa!

Da anni società ed enti di tutto il mondo stanno introducendo processi che tendono al perseguimento della qualità, essendosi rese conto che la qualità paga.

Investire nella qualità (di prodotti e servizi) vuol dire, per ogni azienda o ente, effettuare uno degli investimenti più redditizi, sicuramente molto meno costoso del non far niente.

Spendere il 20% o il 30% del fatturato per rimediare a errori grossolani e correggere difetti (prodotti, conflitti interni, reclami) equivale a un’immagine danneggiata: la cattiva qualità, realizzata, piuttosto che percepita, costa somme inestimabili.

Le indagini confermano che la maggior parte dei consumatori non reclama per una qualità insoddisfacente, si limita a cambiare fornitore.

L’esistenza di clienti insoddisfatti dovrebbe insegnare qualcosa a un’azienda, ma dal momento che la maggior parte di solito non reclama, ciò avviene raramente.

Invece di servire a quell’azienda, l’esperienza di clienti insoddisfatti serve semplicemente a tenere lontani i clienti potenziali, avvicinandoli probabilmente alla concorrenza.

In questo contesto di qualità si muovono le persone e in ogni settore, soprattutto in quello dei servizi e dei prodotti intangibili ed indifferenziati, la qualità personale è alla base di ogni tipo di qualità; è cruciale per l’autostima di chiunque, autostima che può determinare benessere, efficienza, atteggiamenti e comportamenti positivi e propositivi.

Non è quindi solo questione di realizzare prodotti di alta qualità e di soddisfare le aspettative del cliente, ma anche di ispirare le persone coinvolte nei processi produttivo e distributivo, a fare del loro meglio.

I vantaggi economici della soddisfazione

La cosa che oggi conta maggiormente è la soddisfazione del cliente.

Il cliente non soddisfatto smetterà di servirsi da noi, e tutto quello che facciamo, e faremo, per raggiungere la qualità e fornire un servizio eccellente, non avrà alcuna importanza se non ci riconoscerà la sua soddisfazione.

E’ una verità tuttora assodata che i clienti soddisfatti aumentano la quantità e la frequenza degli acquisti, comprando sempre di più, tornando sempre più spesso, mandando, inoltre, i loro parenti e amici.

C’è un legame diretto tra vendite, servizio, soddisfazione e guadagni; più il cliente è soddisfatto e più spende, e più il cliente spende maggiore è il profitto per il suo fornitore.

Come è possibile sapere ciò che il cliente chiede, vuole o aspetta?

Basta chiedere: è molto semplice, facciamogli delle domande e poi diamogli ciò che desidera, e anche di più, così dalla soddisfazione potrà nascere l’entusiasmo.

Maturare questa consapevolezza rappresenta la condizione essenziale non solo per realizzare gli obiettivi di business, ma anche per garantire la continuità nel tempo.

La limitata differenziazione dei prodotti/servizi comporta la necessità di sostenere la propria offerta attraverso lo sviluppo della qualità del rapporto, puntando a massimizzare “il valore complessivo” percepito dal cliente.

La soddisfazione, come è noto, è una reazione emotiva, conseguente all’esperienza maturata ed è misurabile attraverso la differenza  riscontrabile tra attese risposte nel prodotto/servizio, e la percezione relativa all’esperienza d’uso.

Le aspettative, evidenziate in termini di prestazione attesa, sono influenzate dalla comunicazione messa in atto dall’azienda e dal contesto esterno: offerta dei concorrenti, passa parola, ecc..

La loro soddisfazione, o la loro delusione, sono il vero fattore critico di successo per chiunque.

C’è una stretta relazione tra soddisfazione e fedeltà.

Una ricerca effettuata dalla Anjoy Research Inc. asserisce che un aumento della fedeltà dal 60% al 65% (+5%) può portare ad una crescita del fatturato del 15%, ed a questo occorre aggiungere che la letteratura in materia ha mostrato come il costo di mantenimento di un cliente è di gran lunga inferiore (sino a 5 volte) rispetto al costo di acquisizione di uno nuovo.

Anche se in alcuni casi, in situazioni di forte competizione, il cliente può scegliere un nuovo fornitore indipendentemente dal giudizio di soddisfazione espresso nei confronti di quello tradizionale, in generale è possibile affermare che soddisfarne le esigenze e porsi nella sua ottica, nella maggioranza dei casi equivale a:

  • Fidelizzarlo
  • Mantenere ed accrescere le quote di mercato
  • Aumentare i profitti aziendali
  • Migliorare la propria immagine

In definitiva, capire le necessità ed i bisogni del cliente in tutte le “fasi del suo ciclo di vita”, prevenirli (ove possibile) e soddisfarli (prima degli altri) vuol dire metterlo in condizione di percepire la nostra attenzione nei suoi confronti, inducendolo a preferirci rispetto ai nostri competitor.

L’importanza di essere creativi

In tempi difficili come i nostri, solo un flusso incessante di innovazioni può garantire ad un’impresa di competere e prosperare.

Occorre creatività per aumentare l’efficienza e la produttività, per immaginare e attuare procedure operative più economiche e più efficaci, per migliorare la qualità di prodotti e servizi e per far fronte ai problemi sempre più ardui e costosi di un mondo esterno in rapidissima evoluzione.

Occorre creatività per sviluppare prodotti e processi nuovi, per concepire efficaci strategie di marketing, per lanciare campagne di vendita vincenti o per trovare armi sempre nuove contro sempre nuove situazioni e sfide esterne.

Oggi un’impresa incapace di rinnovarsi non può sopravvivere a lungo nel mondo degli affari.

Secondo analisi e ricerche si stima che circa il 90% del volume delle vendite delle aziende di successo sia costituito da prodotti che soltanto dieci/quindici anni fa erano ignoti al mercato.

La creatività ha un ruolo fondamentale nella filosofia, nel problem solving e nei processi decisionali di quasi tutte le funzioni aziendali: management, pianificazione, comunicazione, marketing, pubblicità, vendite, relazioni pubbliche, finanza, rapporti con i sindacati e con il personale, ricerca del personale, automazione dell’ufficio, ecc. ecc.

La caratteristica più importante delle imprese creative di successo è un management che si rifiuta di accettare passivamente le soluzioni già sperimentate e collaudate e le situazioni di fatto.

Invece di seguire ciecamente le procedure consolidate, e di percorrere stancamente rassicuranti strade battute, i manager creativi sono sempre disposti ad esaminare ed utilizzare le nuove idee creative, senza timore dei rischi, anche rilevanti, che esse comportano.

L’impresa cresce perché viene regolarmente nutrita con nuove idee.

Utile nella prosperità e nella stabilità, un costante ricorso alle innovazioni diviene necessario in tempi d’incertezza, quando valori ed obiettivi cambiano, e problemi nuovi sorgono di continuo.

In un mondo che diventa sempre più complesso, non è più possibile affidarsi ciecamente alle tecniche collaudate e all’analisi razionale: troppe tecniche collaudate si dimostrano ormai incapaci di risolvere i problemi, e le soluzioni razionali non garantiscono più la competitività.

La creatività non è solo una dote che aiuta a risolvere i problemi scolastici o a primeggiare nei giochi di società, è uno degli strumenti più efficaci per garantirsi la competitività attraverso il cambiamento costruttivo: in un contesto imprenditoriale illuminato, essa è sovrana.

Troppe aziende non fanno ancora abbastanza per incoraggiare l’innovazione; troppe procedure obsolete, e quindi da rinnovare, restano invece operative.

Il fatto è che in molte di esse l’innovazione non trova un clima favorevole: si va dall’indifferenza all’ostilità, non solo passiva, ma in molti casi attiva.

Un atteggiamento del genere finisce nello scontro frontale tra menti creative e menti esecutive.

Naturalmente la maggior parte dei dirigenti si dichiara, in buona fede, sempre ben disposta ad esaminare una nuova idea, ma l’esperienza insegna che nella maggior parte dei casi si tratta unicamente di pie intenzioni.

La frase classica è “Caspita, questa si che è una buona idea! Studiala bene nei dettagli e poi torna”.

Questo è il modo migliore per affossare qualunque idea; quanti collaboratori hanno il tempo, la preparazione, gli strumenti e le risorse per poter sviluppare l’idea?

Nella maggior parte delle aziende manca ancora oggi la consapevolezza dell’importanza della creatività, e quindi la sincera volontà di ascoltare ed appoggiare le idee nuove.

I più dei creativi, non sentendosi incoraggiati, finiscono per arrendersi pensando “è inutile non mi stanno neanche a sentire, non capiscono”, rientrando così nei ranghi, nella comoda e improduttiva routine.

I manager creativi affrontano il rischio ed avanzano nell’ignoto, perché sanno che, scavando nel deserto, un pozzo alla fine salta sempre fuori, sia esso d’acqua, che di petrolio.

Comunicare significa ascoltare

Lo psicologo Carl Rogers (fondatore della terapia non direttiva) ha scritto: “La principale causa di blocco delle comunicazioni interpersonali è l’incapacità di ascoltare intelligentemente, con spirito di comprensione e con abilità  un’altra persona”.

Si può ritenere che non sia così importante saper ascoltare; ci si potrà chiedere se l’ascoltare dimostrando comprensione è veramente utile o è semplicemente una cortesia.

In realtà è tutte e due le cose: oltre ad essere una buona regola in sé, il sapere è di grande aiuto pratico.

Spesso l’insuccesso di ottenere comunicazioni discendenti efficaci dipende da cattive comunicazioni ascendenti.

Spesso non ci si rende neppure conto di essere un cattivo “ascoltatore”; l’ascoltare è molto di più che tenere le orecchie aperte.

Tuttavia colui che è dotato di una normale sensibilità nei confronti dei suoi interlocutori, riuscirà a migliorare la sua abilità di ascoltare, se si sforzerà di applicare fattori che conducono ad un buon ascolto.

H. Sherman (psicologo e terapista familiare) offre i seguenti 5 suggerimenti a tutti coloro che vogliono migliorare la loro abilità nell’ascoltare.

1.          Ascoltare i nostri interlocutori con la massima attenzione. Se l’interlocutore riceve l’impressione che noi non siamo sinceramente interessati a ciò che egli dice, non si preoccuperà di rivelarci i suoi veri pensieri. Non lasciamoci distrarre mentre egli parla; dobbiamo essere totalmente con lui se vogliamo che egli sia comunicativo.

2.          Fare delle domande esplorative, alle quali non sia possibile rispondere con un sì o con un no. Per esempio, invece di chiedere: “Le ha detto che non poteva?” chiediamo: “A questo punto cosa Le ha detto?”

3.          Usare l’ascolto per riflesso, che ci aiuterà sia a controllare se abbiamo capito ciò che il nostro interlocutore ci ha detto, sia ad incoraggiarlo a continuare. L’ascolto per riflesso consiste nel ripetere, in termini leggermente diversi, ciò che l’altra persona ha appena terminato di dire. Per esempio, il nostro interlocutore ci ha detto: “Questo tipo di problema non mi sembra facile”. La nostra reazione dovrà essere tale da incoraggiarlo a continuare, così da poter scoprire le ragioni che determinano questa sua affermazione. Diremo: “Perché lei ritiene che questo problema non sia facile?”. La sua risposta sarà probabilmente indirizzata a spiegarci le cause e i motivi che creano l’ostacolo.

4.          Captare il tacito messaggio. In ogni comunicazione vi sono due componenti principali: la più ovvia è il contenuto della conversazione, ma l’altra è costituita da sentimenti espressi o sottointesi attraverso il tono di voce, le riflessioni, le pause, ecc. Tutte e due le componenti sono importanti per il significato complessivo del messaggio e noi saremo tenuti a rispondere ad entrambi. Se riceviamo una comunicazione tacita e riteniamo sia opportuno metterla in evidenza e chiarirla, allora diremo qualche cosa che faccia riferimento ad essa, senza però esprimere né approvazione né disapprovazione. Riconoscendo e parlando di sensazioni che il nostro interlocutore ha tacitamente espresso, ci sarà possibile stimolare ulteriori comunicazioni, dandogli la possibilità di esprimersi liberamente.

5.          Evitare di dimostrare approvazione o disapprovazione durante il discorso. Dimostrandoci d’accordo o compiaciuti o dispiaciuti, per quanto egli dice, gli forniremo degli avvertimenti che lo indurranno a reprimere alcuni suoi pensieri o a sollevarne altri. Se vogliamo che continui a parlarci con franchezza, dobbiamo restare neutrali.

In definitiva è  opportuno rendersi disponibili anche a comprendere realmente ciò che l’altro sta dicendo, mettendo anche in luce possibili difficoltà di comprensione.

In questo modo è possibile stabilire rapporti di riconoscimento, rispetto e apprendimento reciproco. L’ascolto deve essere aperto e disponibile non solo verso l’altro e quello che dice, ma anche verso se stessi, per ascoltare le proprie reazioni, per essere consapevoli dei limiti del proprio punto di vista e per accettare il non sapere e la difficoltà di non capire.