Il consenso

Consenso indica che si è d’accordo su qualcosa, ma non significa necessariamente accordo pieno di tutti su tutto, ovvero non significa unanimità.

L’unanimità può anche arrivare, ma non è certo un obiettivo: il consenso punta a far convivere le differenzenon ad eliminarle.

Perciò in una decisione consensuale vi possono essere diversi gradi di accordo e molte sfumature riguardo agli impegni che i diversi membri si assumono rispetto a una determinata decisione, ma il tutto avviene in modo esplicito e accettato.

Le basi del consenso

  • Il fine non giustifica i mezzi; i mezzi contengono il fine.
  • Il singolo non viene schiacciato dal gruppo, il gruppo non viene bloccato dal singolo.
  • Il singolo ha il potere e la responsabilità di sollevare i problemi; il gruppo ha il potere e la responsabilità di riconoscerli e risolverli.
  • Le buoni soluzioni tengono conto sia degli aspetti concreti dei problemi, sia delle relazioni tra i soggetti.
  • Distinguere le persone dai problemi e concentrarsi sui problemi (duri con il problema, morbidi con le persone).
  • Distinguere i bisogni dalle soluzioni, il cuore delle questioni non si trova nelle posizioni di partenza.
  • Inventare soluzioni: generare opzioni e definire obiettivi fattibili.
  • Abbandonare una proposta di soluzione non significa rinunciare ai propri principi o ai propri bisogni, ma semplicemente ricercare altre soluzioni.
  • Operare scelte sulla base di criteri riconosciuti e trasparenti.
  • Saper stare costruttivamente nel disagio (frustrazione, irritazione, preoccupazione, ecc.).

In definitiva significa rispettare le basi del processo che tende a costruire “accordi nel disaccordo”.

Il consenso riguarda in sostanza la volontà di continuare a camminare insieme.

Il vero consenso è basato sulla fiducia e sulla libertà, altrimenti non funziona, e nemmeno si potrebbe chiamare consenso.

Infatti non è vero consenso quello che si fonda sulla paura dell’altro o sulla dipendenza dagli altri

Durante “la produzione del consenso” ci si può trovare di fronte diversi tipi di problemi, quali osservazioni che puntano a dei miglioramenti, piuttosto che a perplessità, dubbi o riserve, in merito a una proposta.

Questo tipo di problemi si può affrontare con una discussione più approfondita e in genere è probabile che si trovi un accordo consensuale, a meno che, nel durante, i “miglioramenti” o le “perplessità” non si siano trasformati in disaccordo.

Infine possiamo trovarci di fronte a un disaccordo verso la proposta, più o meno forte, ma comunque esplicito e chiaro: qui il problema sollevato è tale per cui la parte avversa (una persona o una minoranza) è contraria alla proposta (tutta o in parte).

Di fronte a situazioni di disaccordo si aprono quindi due possibilità:

a) il gruppo alla fine riconosce la validità del problema sollevato e procede al cambiamento

b) il gruppo riconosce la validità del problema sollevato e può quindi procedere nella decisione che intendeva prendere inizialmente.

Per evitare blocchi decisionali occorrono molta fantasia, pazienza e fiducia, ma  anche la capacità di stare nel disagio, nella stanchezza, nella frustrazione.

La fantasia ha bisogno della fiducia e della pazienza, perché in un clima in cui potrebbero generarsi risentimento, reciproche accuse e paura, il tempo e le energie sono investiti per distruggere e non per creare.

La paura è il vero grande blocco e per superarla è bene ricordarsi e ricordare che è impossibile non prendere decisioni, per cui superarla è il primo grande passo per la ricerca del consenso.

Il feed back costruttivo: la critica manageriale in positivo

Una delle capacità più influenti nel coaching è quella di saper fornire un feedback efficace.

Tale feedback permette al collaboratore di sapere se il lavoro che ha svolto è stato fatto bene o se ha bisogno di migliorare le sue prestazioni.

Molto spesso i manager discutono con i singoli membri del proprio team di questioni di lavoro, ma non riferiscono mai, in maniera diretta, qual’ è la qualità della loro prestazione lavorativa relativamente a tali questioni.

Il feedback sulle prestazioni, invece, dovrebbe essere diretto ed immediato. Il feedback costruttivo dà informazioni specifiche, è centrato sulle questioni ed è basato sull’osservazione. Esso può essere di due tipi:

  • Feedback positivo, cioè notizie o informazioni date ad un collaboratore relativamente ad una prestazione lavorativa di buon esito.
  • Feedback negativo, cioè informazioni date ad un collaboratore circa una prestazione che necessita ulteriori miglioramenti. Il feedback negativo ha lo scopo di rilevare che i risultati raggiunti possono essere migliorati.

Le linee guida per dare un feedback costruttivo sono praticamente le stesse, sia che si debba dare un feedback positivo che negativo. Esse si suddividono nelle quattro categorie di seguito delineate:

Contenuto

Il contenuto è ciò che si dice nel momento in cui si sta fornendo un feedback costruttivo.

  1. Identificare l’ambito a cui si riferisce la prestazione considerata.
  2. Fornire i dettagli di quanto è accaduto

Modo

Il modo è come si comunica un feedback costruttivo. Il modo in cui si dice qualcosa, molto spesso, ha una portata maggiore di ciò che effettivamente si intende dire. Per questo il modo è molto importante quando si dà un feedback costruttivo.

  • Scegliere uno stile di comunicazione diretto
  • Optare per la sincerità ed evitare di dare messaggi confusi
  • Nelle situazioni di feedback positivo, esprimere l’apprezzamento
  • Nelle situazioni di feedback negativo, esprimere la preoccupazione
  • Comunicare il feedback direttamente alla persona interessata (viso a viso)
  • Formulare delle osservazioni non dei giudizi.

Immediatezza

Il feedback per una prestazione lavorativa che richieda di essere sottolineata va dato il più presto possibile, possibilmente in tempo reale, così che gli eventi verificatisi siano ben presenti nella memoria di tutti.

Frequenza

I collaboratori dovrebbero ricevere un feedback costruttivo in funzione dell’effettiva prestazione lavorativa. Osservando le prestazioni  si può notare che si verificano più esiti di prestazioni positive, rispetto alle negative, tuttavia i collaboratori vengono interpellati riguardo le loro prestazioni prevalentemente, se non solo, quando c’è qualcosa che non va. Il concetto generale che si vuol suggerire è molto semplice: bisogna cercare di comprendere e dare una risposta anche a chi che sta svolgendo bene il proprio lavoro, così come si fa con coloro che stanno facendo qualcosa non altrettanto soddisfacente.

Comunicare in team

“Se non hai un buon livello di eloquenza nel parlare e nello scrivere sarai una nullità; avrai la mortificazione quotidiana di veder persone senza neanche una decima parte delle tue qualità o conoscenze in vantaggio su di te” – Lord Chester Ford –

In poche parole, non si può avere un lavoro di squadra, se non si è, e non si hanno, giocatori comunicativi; senza la comunicazione non si ha una squadra, ma un mucchio di individui.

Quali sono le caratteristiche comuni delle persone comunicative?

1. Non si isolano dagli altri. Quando un membro del team si isola, è un problema per la squadra. Se più persone si isolano, il problema cresce. Più i membri comunicheranno più si capiranno, più si capiranno e più si uniranno. Un membro dotato di passione, informazioni e capacità di relazionarsi è un dono formidabile per qualsiasi squadra.

2. Facilitano la comunicazione dei compagni di squadra con loro stessi. La maggior parte dei problemi di comunicazione possono essere risolti con la “vicinanza”; in altre parole non solo avendo la capacità di relazionarsi, ma accertarsi che i  membri del team siano in grado di stabilire facilmente il contatto tra loro, adoperandosi per agevolarlo.

3. Seguono la regola delle ventiquattro ore. Quando si trovano dinanzi a conflitti o difficoltà interpersonali, alcuni evitano la persona con cui hanno il problema. Ma il tempo non sempre basta a porre rimedio. Le persone tendono a concedersi sempre il beneficio del dubbio, e pertanto scaricano sugli altri le motivazioni e le azioni negative. Se non si comunica la situazione è destinata ad aggravarsi. La regola delle ventiquattro ore dice che sei in difficoltà o in conflitto con un membro di qualunque team (lavoro, famiglia, sportivo, ecc.) non permettere che passino più di 24 ore senza affrontarlo. Di solito, prima si comunica, prima si sta meglio, e facciamo star meglio.

4. Dedicano la loro attenzione ai rapporti potenzialmente difficili. I rapporti hanno bisogno di attenzione per prosperare, soprattutto tra persone potenzialmente in conflitto.

5. Accompagnano le comunicazioni importanti con un testo scritto. Più la comunicazione diventa difficile, più è importante adoperarsi per mantenerla chiara e semplice, e a volte è meglio mettere per iscritto le comunicazioni (che si tratti di un promemoria, una scaletta, un approfondimento, ecc.).

Noi come comunichiamo?

Abbiamo un buon rapporto con tutti, o abbiamo escluso qualcuno dalla nostra cerchia di comunicazione?

Ci isoliamo dagli altri per essere più produttivi? Siamo accessibili o per noi la regola delle 24 ore è un optional?

La comunicazione aperta favorisce la fiducia, il nostro scopo dovrebbe essere parlare in modo sincero, ma gentile, con qualunque membro di qualunque team.

Non teniamo le cose nel cassetto, se abbiamo un problema con qualcuno troviamo la prima opportunità ragionevole per affrontarlo, e invitiamo gli altri a fare lo stesso con noi; ricordiamoci le persone possono dare il meglio soprattutto riguardo alle cose di cui sono al corrente.

La comunicazione aperta aumenta la fiducia, la fiducia aumenta l’appartenenza, l’appartenenza aumenta la partecipazione.

L’unione fa la forza, ma non vi può essere nessuna unione senza una buona comunicazione.

Autostima e dintorni

Tra i fattori più importanti che possono influenzare la nostra autostima vi è la distanza tra l’immagine di sé, (ovvero che abbiamo di noi stessi – come ci vediamo in un determinato momento) e il nostro sé ideale (come vorremmo essere in un certo momento futuro).

Ogni volta che percepiamo che i nostri comportamenti o prestazioni sono coerenti con la persona che potremo mai essere, la nostra autostima aumenta; ci sentiamo più felici e stimolati, abbiamo più entusiasmo ed energia, siamo più positivi e risultiamo più simpatici agli altri.

Al contrario quando comportamenti e prestazioni sembrano distanti o non coerenti con chi vorremmo essere, la nostra autostima cala; si sentiamo ansiosi e infelici, imbarazzati ed impacciati, arrabbiati e frustrati.

Di buono c’è che più è chiara in noi l’immagine del nostro sé ideale, cioè la persona che vorremmo essere, più è facile modificare i nostri comportamenti per renderli coerenti col nostro desiderio.

La migliore definizione di autostima in assoluto è “quanto ci piacciamo”; più ci piacciamo, migliori sono le cose che facciamo e di conseguenza ci sentiamo felici e sicuri.

La nostra mente è molto simile a uno spazio vuoto, ma non rimane tale a lungo; se non riempiamo di proposito la nostra mente con pensieri positivi e costruttivi, si riempirà da sola con i nostri timori, paure e preoccupazioni.

E’ importante “parlare” a noi stessi positivamente, non avere paura di piacerci e di ammetterlo: piacersi non vuol dire autocompiacersi, vuol dire avere una bella immagine di sé, trovando la forza, in ogni momento, di fare un altro passo per migliorare noi stessi e la nostra vita.

Aumentando la nostra autostima, ci sentiremo più positivi ed ottimisti, ci porremo obiettivi più elevati ed affronteremo sfide maggiori, avremo sempre più coraggio e sicurezza.

Prendiamoci il tempo necessario per fare assoluta chiarezza sulle virtù, caratteristiche, qualità e valori che maggiormente ammiriamo e che vorremmo fare nostri.

Molti psicologi ritengono che ogni pensiero, sensazione, idea, opinione, convinzione che abbiamo da adulti è stato acquisito a partire dalla prima infanzia, anche se più del 50% dei tratti della personalità (come il coraggio, l’estroversione, l’interesse musicale, la sensibilità, la capacità atletica, ecc.) è congenito e innato.

Ecco perché bambini nati nella stessa famiglia, che hanno avuto gli stessi genitori e ricevuto un’educazione simile, risultano spesso così diversi tra loro.

Ciononostante il modo in cui una persona pensa a se stessa, e come si percepisce in relazione alle proprie abilità e potenzialità, viene acquisito nella prima infanzia.

Al momento della nascita veniamo al mondo con due qualità naturali, la prima è che “siamo assolutamente privi di paure”, la seconda è che “siamo completamente spontanei”, e da adulti, quando ci sentiamo completamente rilassati e sicuri, circondati da persone che apprezziamo e di cui ci fidiamo, la nostra naturale tendenza è tornare ad essere aperti e senza paure, spontanei ed espressivi.

A queste qualità naturali si frappongono sin dalla prima infanzia due modelli negativi, che in seguito si trasformano nelle influenze più devastanti da adulti: il primo è “il modello di abitudine negativo inibitorio” che si trasforma ben presto in paura di fallire, rischiare, perdere. Da bambini la nostra pulsione naturale è esplorare il nostro ambiente, ma il più delle volte i genitori tendono a scoraggiare questa nostra attitudine. Il secondo è “il modello di abitudine negativo compulsivo”, ovvero la paura di essere rifiutati o criticati. I genitori concedono o negano l’approvazione e il sostegno in base al comportamento del figlio, è il metodo della “carota e del bastone”. Purtroppo questo viene memorizzato con un “se voglio vivere serenamente, devo acconsentire”, e nell’età adulta potrebbe trasformarci in persone ipersensibili agli atteggiamenti e alle opinioni altrui.

Paure ed autostima hanno un rapporto inversamente proporzionale o opposto.

In altre parole, più ci piacciamo, meno temiamo il fallimento e il rifiuto.

Maggiore è la nostra autostima e minori saranno i timori ed i dubbi che frenano la maggioranza della gente; più riconosceremo il nostro valore e più saremo disposti a correre dei rischi e ad accettare le inevitabili sconfitte, gli ostacoli e i fallimenti passeggeri che si verificheranno.

In altre parole, andremo per la nostra strada.

Informarsi su un potenziale cliente

Cosa ci serve sapere dell’attività di un potenziale cliente?

Quanto possiamo sembrare impreparati se, sedendoci davanti ad un cliente, gli chiediamo in cosa consiste la sua attività?

Basterebbe andare sul sito web, stampare le videate, piuttosto che prendere appunti, in modo da poter condurre un “intervista intelligente” che non parta dal presupposto dell’ignoranza di chi si ha di fronte, ma dell’approfondimento della sua conoscenza.

“Ditemi qualcosa della vostra attività” in quanto ad entrata in scena è seconda solo, come dimostrazione di piattume indifferenziato, all’affermazione “lasciate che vi dica di cosa mi occupo”.

Ma vediamo dove, e come, possiamo trovare informazioni sui potenziali clienti e sulle loro attività prima di andare a visitarli; l’elenco non pretende di essere esaustivo.

1.      Internet. Non solo nel sito. Scrivere il nome dell’azienda o dei suoi amministratori in un motore di ricerca potrebbe farci accedere ad articoli o informazioni importanti. E se non hanno un sito, non sono sulle pagine gialle o bianche, e non si trova notizia alcuna in internet? Beh anche questo vorrà dire qualcosa? Cominciamo da quelli che ci sono!

2.      Le loro pubblicazioni. Brochure, depliant e quant’altro. In alcuni casi anche monografie. E’ probabile che siano una serie di vanterie, ma potremmo trovare informazioni anche rispetto ai loro campi di interesse, alla copertura di mercato, di cosa pensano di sé e dei propri prodotti.

3.      I loro fornitori. Di solito questi sono riluttanti a parlare, ma se con qualcuno di loro si ha buon feeling, si possono avere informazioni su come è fare affari con loro e se sono puntuali nei pagamenti. Informatori di informazioni preziose raramente utilizzati.

4.      I loro concorrenti. Facciamo solo domande casuali ad esempio sul modo in cui hanno successo. Più un concorrente è inviperito, più informazioni “arrabbiate” ci fornirà.

5.      I loro clienti. I clienti parlano e ci possono dare informazioni per quanto riguarda consegne, organizzazione, qualità e quelle piccole informazioni che potrebbero crearci vantaggi.

6.      Persone della nostra cerchia che possono conoscerli. Una breve mail ai  nostri contatti più stretti ci porteranno sempre una o due notizie, magari il tassello che cercavamo.

7.      I loro venditori. La risorsa migliore e meno usata; con un venditore si ottengono tante di quelle informazioni da non credere.

Quindi non si tratta solo di cercare informazioni in internet, ma di trovare le strade di volta in volta più adatte.

E’ inoltre importante fissare a priori uno o due obiettivi che si vogliono raggiungere dall’incontro col potenziale cliente.

Prepararsi richiede tempo, e a volte fatica, ma il cliente si accorge di chi è preparato, e ne rimane colpito.

Prepararsi adeguatamente è un vantaggio che pochissimi venditori usano perché commettono l’errore di partire da metà strada, dall’azione, facendo leva sulla loro mercanzia: campioni, pubblicazioni, presentazioni in power point, biglietti da visita … le stesse cose che ha appena fatto il concorrente precedente, e che con ogni probabilità farà il concorrente successivo.

Restare in affari

Non credo di essere la persona più facile come “capo”, pretendo molto da chi lavora con me, ma pretendo molto anche da me stesso.

Benché possa sembrare un luogo comune, non chiedo mai ai miei collaboratori nulla che risparmio a me stesso, e pretendo da loro lo stesso atteggiamento quando sono a capo di progetti per i quali si trovino a coordinare un gruppo di lavoro. Se chiedo a qualcuno di fare la trottola per una o due settimane cambiando 8 città in 10 giorni, è perché, io per primo sono impegnato nel medesimo “tour”, se non peggio, e chiunque in ufficio, guardando la programmazione, lo può vedere.

Non sono né masochista, né stakanovista, ma ho sempre pensato di non chiedere agli altri, ciò che non posso, o voglio, chiedere a me stesso.

Un’altra regola per me fondamentale è separare il lavoro dalla vita, minimizzando le relazioni con i miei collaboratori fuori dall’ufficio; questo aiuta a preservare il rapporto … è impossibile confidarsi con qualcuno la sera e la mattina dopo illudersi di essere completamente se  stessi, anche nel semplice trattare sul piano professionale, con quella persona.

Negli anni poi ho letto, approfondito, sperimentato (a volte con successo e a volte fallendo) filosofie manageriali di cui si legge sui libri, o si sente parlare all’università, o nel corso di qualche conferenza o master.

Ho imparato, mio malgrado, che, non appena si introducono gli esseri umani (personalità ed egoismi per essere chiari), anche le teorie più accorte si infrangono: filosofie e teorie manageriali sono sempre battute dalla vita vera.

L’unica filosofia manageriale che sinora posso dire abbia (quantomeno per me) funzionato è l’essere flessibile, sforzandomi di diventare ugualmente solido.

Io credo che uno spirito competitivo (nel senso più corretto del termine) sia fondamentale per il successo personale, e per quello dell’azienda.

Una delle prime misure di questo successo è quanti passi si è avanti rispetto alla concorrenza, imparando a non autocompiacersi e a non sottovalutare la concorrenza stessa, perché negli affari, la gara non finisce mai, non vi sono distacchi incolmabili, ed il concorrente ha sempre tutto il tempo per raggiungerci.

Gli affari sono una gara, e qualunque competizione sofisticata e di alto livello è, quasi esclusivamente, una gara di teste.

La “gara interiore degli affari”, come potrebbe chiamarsi, richiede la comprensione dei paradossi degli affari quali “meglio crediamo di cavarcela e più dovremmo preoccuparci”, ovvero “più siamo soddisfatti dei nostri successi e delle mosse geniali che abbiamo messo in atto in passato, più ci conviene stare in guardia”.

Se dovessimo imparare dai campioni dello sport potremmo osservare tre caratteristiche attitudinali:

  1. Ogni meta raggiunta diventa subito un gradino verso una meta più grande
  2. La capacità di rendere al massimo negli appuntamenti che contano
  3. La capacità di battere gli avversari

Queste tre caratteristiche trovano applicazione anche negli affari, ed infatti ognuno di noi può adattarle a se stesso, nel rispetto della propria persona, natura e indole: sono un barometro, e a volte una bussola, per misurarci nel lavoro.

Riuscire ad essere un vincitore senza mai far sentire l’altro un perdente è molto più che un talento, è la capacità interiore di riconoscere a se stessi che, per quanto bravi possiamo essere, per restare in affari dobbiamo rimanere in equilibrio con tutto ciò che questi comportano: persone, obiettivi, risultati, teorie, filosofie, etica.

Una volta un Cliente mi chiese “ma essere corretti negli affari paga sempre?”.

Risposi semplicemente “di certo non pagherà sempre, ma lo trovo estremamente comodo e poco faticoso, e mi permette di fare affari con Clienti simili a me”.

Riscoprire la propria creatività

Riscoprirsi creativi vuol dire ricordarsi e attivare la propria natura più autentica, quella che ci insegna a cogliere con curiosità e meraviglia la vita, e ci aiuta ad essere centrati e allineati con la nostra natura.

Così ci accorgiamo che la nostra vita è nel mezzo di un flusso di energia, cui possiamo attingere a piene mani: imparando ad “esserci” in questa energia possiamo capire di che cosa abbiamo veramente bisogno nella vita, riscoprendone lo scopo vero.

La creatività, secondo alcuni, è semplicemente la capacità di darci respiro, movimento, consapevolezza e di far ritrovare noi stessi; per altri è la manifestazione dell’universo che agisce attraverso di noi.

Creatività è una parola molto usata, e talvolta abusata, soprattutto in questo inizio di millennio.

In una società che propende verso la Scienza e la Tecnologia, la persona ha bisogno di riacquistare un proprio valore.

La creatività è una capacità che hanno tutti gli esseri viventi, non è una prerogativa di pochi uomini, non è neanche una prerogativa solo umana; ogni pianta è diversa dall’altra, ogni roccia ha forme particolari.

Si può parlare di creatività senza parlare di arte.

La creatività è vivere in pieno, con completezza la propria vita.

Gli uomini creativi non sono solo i musicisti, i pittori, ma tutti coloro che sono in grado di esprimere la propria energia vitale, in qualunque forma essa possa venire.

La creatività può essere espressa in ogni attimo della nostra vita, attraverso le percezioni, i movimenti, le azioni, non fermandosi alla superficie, alle apparenze, ma andando in profondità, con il cuore.

Potremmo anche trovare nuove associazioni nella nostra mente, nuove fantasie, figure che non avremmo mai immaginato.

Potremmo sentire degli odori, delle fragranze oppure i nostri occhi potrebbero fissarsi su una particolare brillantezza riflessa nella luce…

Quando attiviamo la nostra attenzione, la dimensione su ciò che siamo focalizzati cambia completamente, si espande all’infinito, possiamo andare avanti per giorni, mesi, anni, sempre scoprendo cose nuove.

Quando creiamo, focalizziamo la nostra attenzione e tutto ci appare più semplice, chiaro.

Ciò che “creiamo” è semplicemente la scoperta di qualche cosa “che esiste già”, semplicemente abbiamo tolto le barriere che limitano le nostre percezioni.

Comunicazione verbale e comunicazione non verbale

La comunicazione è la produzione intenzionale di un qualche tipo di segno che possa essere percepito e interpretato come tale da un altro soggetto.
Tutti gli esseri viventi, per continuare a vivere, estraggono energia e informazione dall.ambiente circostante, ma solo quando l’informazione è prodotta intenzionalmente si può propriamente parlare di comunicazione.
Uno starnuto, ad esempio, può rappresentare per chi lo produce e per chi è presente un sintomo di un incipiente raffreddore, ma l’essere umano, di norma, non starnutisce volontariamente per qualcuno, essendo lo starnuto una risposta automatica a stimolazioni della mucosa nasale.
Ma se qualcuno ci fa l’occhiolino, possiamo interpretare questo segno come volontario e intenzionale e quindi come comunicazione di un qualche significato (a meno che il soggetto non abbia un tick nervoso).
Forme più o meno complesse di comunicazione sono usate da tutti gli animali, ma solo l’homo sapiens ha creato la forma di comunicazione più complessa che è il linguaggio verbale.
L’assoluta superiorità del linguaggio verbale rispetto a tutte le altre forme di comunicazione (messaggio bio-chimico, movimento, colore, odore, spazio, immagine, suono) sta nel fatto che esso è un sistema altamente integrato fatto di costituenti (fonemi, morfemi, sintagmi, frasi , testi ) che possono funzionare in combinazioni infinite grazie a regole ricorsive di riscrittura di simboli categoriali (ad esempio, il simbolo soggetto può essere riscritto come [ egli ],[ Paolo ] [mio zio], [mio zio che è morto nella prima guerra mondiale] ) e di trasformazione di un struttura in un’altra .
Un’altra caratteristica del linguaggio verbale è la capacità di dislocazione ( displacement ), cioè di potersi riferire ad eventi e luoghi non presenti alla percezione dei partecipanti alla comunicazione.
Il linguaggio verbale come raffinato sistema di segni per la comunicazione e per il supporto alle nostre computazioni mentali , tuttavia , è solo uno degli strumenti usati dall.uomo per interagire con l.ambiente sociale.
Gli elementi puramente formali del linguaggio ( l’articolazione delle parole stesse, il loro significato e le regole grammaticali da cui essi dipendono ) passano in secondo piano , anche nella percezione del parlante, rispetto alla negoziazione del significato e allo scopo comunicativo dell’interazione.
I parlanti impegnati della comunicazione verbale , infatti , seguono una gerarchia di stadi : il primo è quello della definizione di uno scopo dell’interazione ( saluto , ringraziamento , lamentela, promessa, accusa, critica , spiegazione, complimento, ecc. ) .
Il secondo stadio è quello della elaborazione del contenuto del messaggio ( nel caso di un complimento potrei dire mi piace la tua cravatta , oppure Hai buon gusto come sempre..) ; il terzo stadio è quello della selezione di una sequenza di parole ( struttura ) e una inserzione di lessico appropriati per realizzare il contenuto e lo scopo del messaggio.
Solo negli ultimi stadi il parlante apporta i dovuti ritocchi morfologici ( concordanza, suffissi , flessioni ecc.) prima di articolare materialmente la frase che poi sentirà il suo interlocutore ( Levelt 1989 , 1993 Bierwisch e Schreuder 1993).
Durante la comunicazione, inoltre , il parlante deve continuamente modellare il suo messaggio e i suoi scopi sul contesto fisico e sociale in cui agisce ( la conversazione in un bar chiassoso richiederà di sollevare la voce , di semplificare la struttura sintattica delle frasi e porterà i parlanti a ridurre la distanza dell.interazione ) ; la comunicazione faccia-a-faccia è poi fortemente vincolata al feed-back dell.interlocutore, all.alternanza di turni e al rispetto di alcune massime di collaborazione conversazionale (Grice 1978,199219)La comunicazione verbale , infine , non avviene in un vuoto sociale , come alcuni dialoghi nei manuali di lingue straniere , ma è profondamente intessuta nelle relazioni sociali tra i partecipanti .
I diversi ruoli e status sociali percepiti ( [ padre vs figlio ; insegnante vs studente ; venditore vs acquirente ] e di status [manager vs segretaria ; ecc.]) vincolano i parlanti a scegliere un particolare registro invece che un altro e adeguate forme di rispetto o di manifestazione di potere ( Halliday, 1983 ).
Se analizziamo la video-registrazione senza audio di una conversazione faccia a faccia, ci accorgeremo che il linguaggio è solo uno dei canali usati dai parlanti per la significazione. Le parole sono sempre accompagnate ad una gestualità più o meno accentuata , a posture particolari , ad un ritaglio simbolico dello spazio della conversazione , ad un uso modulato della voce che sembra sottolineare i significati verbali espressi.
Il gesto indica la via alla parola . afferma un antico detto dei Dogon. La comunicazione , (Birdwhistell 1971) avviene in massima parte ( 65% ) attraverso il canale visivo dei gesti ; solo il resto è verbale , tattile e olfattivo.
Nella maggior parte dei casi l’interlocutore decodifica inconsciamente in modo subliminale molti di questi messaggi e li ingloba nel contenuto complessivo della comunicazione. Solo quando percepiamo una discrasia tra il contenuto semantico del messaggio verbale e di quello del linguaggio del corpo ( che è spesso messaggio di relazione ) riportiamo alla coscienza l’ambiguità di un gesto , di un.occhiata, di un tono di voce particolare.
Che una gran parte della comunicazione possa essere, e sia effettivamente, veicolata attraverso i codici non verbali , è confermato dalla alta comprensibilità dei film muti .
Charlie Chaplin e Buster Keaton svilupparono una insuperabile capacità espressiva che con l’avvento del sonoro andò inevitabilmente perduta.
Il linguaggio non verbale è normalmente molto più efficace del linguaggio verbale per esprimere emozioni complesse o stati d’animo irrisolti o conflittuali ; talvolta il linguaggio del corpo rivela , a chi lo sa leggere , ciò che il parlante tenta di celare tra le sue parole.
Il linguaggio del corpo Il primo studioso ad attirare l.attenzione sull.importanza della comunicazione non verbale per la filogenesi dell.homo sapiens fu Darwin in un.opera del 1872.
Darwin avanzò l’ipotesi , ampiamente dimostrata dalle ricerche successive , che molto del comportamento gestuale dell’uomo è universale e geneticamente ereditato ed esso permane come inutili vestigia di abitudini ancestrali.
Comportamenti quali il riso, il sorriso, il pianto, il dolore, la rabbia , la paura , l’aggressione e la sottomissione, sono tipiche del comportamento umano e rivelano spesso affinità filogenetiche con gesti analoghi tra i primati.
Il riso e il sorriso.
Questi segnali non sono appresi dal piccolo umano, ma manifestati molto presto, anche pochi giorni dopo la nascita.
Il movimento di base è dato dallo scoprire i denti più o meno apertamente.
La funzione principale e quella di manifestare piacere fisico e intellettuale.
Filogeneticamente deriva da uno schema di comportamento difensivo e protettivo che successivamente si è trasformato in un segnale di sottomissione e non ostilità.
Con questo significato è abbastanza diffuso tra molte scimmie e primati ( Hoof, 1977), il sopracciglio.
Il colpo di sopracciglia all’insù è usato da popolazioni distribuite in parti lontanissime della terra ( in tutta Europa, tra le isole Samoa, tra gli indiani del Sud America e i boscimani dell’Australia ), per salutare qualcuno , per ringraziare, per il corteggiamento e l’approvazione.
Esso è un gesto tipico di riconoscimento e di integrazione sociale. Nella filogenesi lo stesso schema di comportamento è legato alla sorpresa e allo sbarrare gli occhi.
Probabilmente si è poi evoluto in segnale di indignazione, disapprovazione e poi semplicemente di domanda .
Associato ad un cenno del capo e ad un sorriso è una ritualizzazione del segnale di attenzione (Eibl-Eibelsfeldt,1977).
Per i giapponesi , tuttavia , il gesto di sollevare le sopracciglia è considerato sconveniente.
Le mani sono il veicolo simbolico privilegiato dei significati di sincerità, onestà, lealtà e sottomissione ( Pease, 1981).
I cristiani pregano con le palme unite verso l.alto, in molte culture si giura con la palma della mano sul cuore; nei tribunali americani, il testimone prende una copia della Bibbia con la mano sinistra e alza la palma della mano destra davanti ai giudici. L’ostensione della mano ha stretta relazione simbolica con l’offerta della gola in segno di sottomissione o sconfitta in molti mammiferi superiori ( canidi, felini, orsi ecc. ).
In questo senso si può interpretare la stretta della mano come segno di alleanza ma prima di tutto segno di mancanza di strumenti offensivi.
Se la palma della mano è rivolta verso il basso, essa comunica autorità, controllo e potere ( ancor di più quando è chiusa a pugno) ; se la palma è rivolta verso l’alto, comunica , inconsapevolmente, sincerità e onestà .
Ma tutte le posizioni delle mani rivelano le nostre emozioni del momento, la nostra psicologia o il nostro modo di definire l.interazione sociale in corso: le mani con le dita intrecciate, sfregarsi le palme della mani, le mani giunte con le punte delle dite a formare la cuspide di una piramide, le mani dietro la schiena o serrate sulle braccia davanti al petto, sono segni interpretabili da esperti di etologia, da attori o da persone particolarmente sensibili ai messaggi del linguaggio del corpo.
In genere le donne sono molto più capaci degli uomini a identificare i significati nascosti della gestualità , a cui forse devono il loro proverbiale sesto senso.
La presenza di un vastissimo repertorio di comportamenti non verbali in tutte le culture è stata interpretata come prova della natura geneticamente determinata del gesto.
Ad un’analisi più accurata, tuttavia , una gran parte dei comportamenti non verbali universalmente diffusi presenta differenze di tipo culturale .
Ad esempio , i movimenti della testa sono correlati ai messaggi di assenso o di diniego; nella maggior parte del mondo occidentale il no è espresso attraverso un.oscillazione rotante sull’asse orizzontale , mentre il sì con un cenno in avanti sull.asse verticale ; questo codice binario tuttavia, non è univoco, ed è anzi rovesciato in Bulgaria .
In Grecia e in altre culture mediterranee, compresa la siciliana, il diniego , invece, si esprime con un secco colpo della testa all’indietro.
I gesti iconici con le mani , di cui ci resta un vastissimo repertorio nella cultura napoletana dell’Ottocento ( Jorio, 1832 ) presentano significative differenze di tipo culturale.
Il ben noto gesto della mano con le dita a V è osceno in America se si tiene la palma della mano rivolta verso l’interlocutore, mentre è simbolo di vittoria nei paesi europei.
Sulla base delle documentate ricerche di Birdwhistell , di Argyle e di Leach , si può quindi affermare che le diverse culture plasmano in modo originale parte del comportamento riflesso e automatico della nostra gestualità, anche se permane tuttavia un residuo ancestrale che è dominio della biologia più che della cultura.
I segnali corporei di panico , odio e dolore proiettati nella mimica facciale umana sono comprensibili a tutti in tutte le latitudini , a prescindere dalla cultura di origine.
Il linguaggio dello spazio. Anche il rapporto tra corpo e spazio presenta sia caratteri universali sia culturali.
Nella comunicazione , il corpo , gli oggetti e lo spazio sono usati per creare significato e contribuire al successo complessivo del messaggio verbale.
Lo studio del significato culturale dello spazio è studiato dalla prossemica.
Come molti animali , che marcano e difendono il loro territorio con vocalizzazioni e tracce olfattive , l’uomo è consapevole dello spazio che lo circonda e della distanza che egli mette tra sé e gli altri individui.
Questa distanza , tuttavia , è determinata culturalmente , in quanto dipende in primo luogo dal livello di affollamento dello spazio stesso e da particolari situazioni sociali.
Esiste uno spazio intimo che circonda l’individuo per uno spessore di 15-50 centimetri.
Di norma solo il partner , genitori e figli, parenti e amici intimi possono accedere pacificamente a questo spazio.
Lo spazio intimo può essere invaso o per motivi affettivi dal partner , o come avance sessuale da un altro individuo ; naturalmente questo spazio vitale può essere oltrepassato anche da un intruso con intenti ostili.
Questa invasione produce trasformazioni fisiologiche significative, quali l.aumento del ritmo cardiaco e dell’adrenalina nel sangue
L’involucro spaziale intimo è racchiuso in un.altra calotta, la zona personale ( da 50 cm a 2 metri ) che l’individuo sceglie per le relazioni sociali ( l’ufficio, i ricevimenti, le presentazioni, ecc.)
Esiste infine un’altra calotta , quella dello spazio sociale, che arriva fino oltre 3 metri di distanza , nella quale collochiamo idealmente le relazioni con sconosciuti , con persone che sono impegnate in lavori manuali o sono già impegnate in una interazione con persone a noi sconosciute.
Queste distanze , come si è già detto, variano da cultura a cultura.
In genere si registra una diminuzione delle distanze man mano che si passa dalle culture nord-occidentali ( scandinave , anglosassoni, canadesi , tedesche ) alle culture mediterranee (Italia Spagna, Grecia ) fino alle culture nord-africane , nelle quali una comunicazione tra estranei può contemplare l’invasione dello spazio intimo e anche il contatto fisico.
Particolare interesse assume la proibizione al contatto fisico ( vero e proprio tabù ) tra individui appartenenti a caste diverse in India , e il rarissimo uso del contatto fisico, accompagnato all’assenza di mimica facciale , della cultura giapponese
L’etnografia della comunicazione ha analizzato diverse lingue non verbali usate in comunità molto distanti tra loro.
In genere si tratta codici che sfruttano le qualità acustiche di tamburi, di gong di trombe e di campane o il fischio umano; queste lingue sono traduzioni della lingua verbale che non si può usare a causa della eccessiva distanza.
Le lingue fischiate sono state individuate per lo più tra le popolazioni montanare , quali i Matazeco che vivono nello stato di Oaxaca del Messico , i Kursköi nella Turchia ed altre popolazioni nei Pirenei .
Con la modulazione del fischio su quattro diverse tonalità, i mazatechi sono in grado di portare avanti transazioni complesse senza apparenti vuoti lessicali o incomprensioni.
Alla pronuncia dei singoli tratti fonetici di cui sono composte le parole, il parlante aggiunge , quasi. sovrascrive ., un’ampia gamma di fenomeni acustici e articolatori che possono modulare alcune parti del messaggio , oppure cambiarlo radicalmente , specialmente nei suoi effetti pragmatici.
Questi fenomeni , spesso raggruppati sotto un’unica tipologia , sono chiamati paralinguistici .
Essi comprendono aspetti prosodici e ritmici, quali l.intonazione, l’accentuazione e la variazione temporale dell’eloquio ( la velocità misurata in numero di sillabe al minuto ) e aspetti timbrici, comunicati dalla qualità della voce ( calda/fredda ; chiara/scura ; sottile/profonda .
Alcuni dei meccanismi di significazione paralinguistica sono ben codificati e fanno parte della competenza linguistica del parlante : l’intonazione discendente è tipica dell.enunciazione e dell’asserzione, quella ascendente della domanda , del dubbio , della cortesia, della proposta.
L’accento contrastivo serve per chiarire ambiguità , esprimere contrasto o come manifestazione di irritazione, rabbia ecc. .
Per quanto riguarda la qualità della voce, il parlante sembra possedere una percezione inconscia del valore associativo/connotativo di alcune caratteristiche vocali.
Ascoltando al telefono una voce sconosciuta , se qualcuno ce lo chiede , possiamo attribuire caratteristiche psicologiche e anche sociali al soggetto parlante.
Se , attraverso filtraggi particolari, si cancella del tutto il contenuto del messaggio, per lasciare solo i tratti paralinguistici , si è osservato che gli ascoltatori attribuiscono ad una voce qualità particolari, in modo statisticamente significativo ( .chi parla è una donna attraente,domina il partner, si veste con gusto, è molto brillante, è una fille à papa.
Poiché parlare è il comportamento usuale, non marcato della comunicazione , la sua assenza può rappresentare un veicolo di significazione.
L’alternanza codificata tra parlato , gestualità e silenzio caratterizza spesso eventi sociali altamente ritualizzati come le cerimonie religiose o civili ( la celebrazione della messa o il rito dell.alzabandiera) .
Nelle relazioni interpersonali , il silenzio può esprime significati caratteristici di una cultura. In alcune culture , dette del silenzio , come quelle orientali , amerindiane e africane , momenti di silenzio sono considerati normali in una conversazione , per dar modo ai partecipanti di riflettere e giudicare .
Tra alcune tribù pellerossa il silenzio significa il non riconoscimento di una persona dopo che questa abbia subito un lutto , una grave malattia o dopo un lungo periodo di lontananza , come a sottolineare che tali esperienze cambiano l’identità di una persona. Nelle culture nord-occidentali , ossessionate dall.uso del linguaggio , il silenzio tra intimi può essere un segnale di condivisione di affetti ed emozioni ; nelle relazioni sociali è un segnale di incertezza, ambiguità o non collaborazione tra interlocutori .
In questo caso esso è spesso usato dal parlante per una negoziazione di status o di ruoli .
Poiché il diritto alla parola in situazioni di comunicazione di gruppo dipende strettamente da relazioni di potere o di funzione riconosciute, ogni individuo sa esattamente se e quando parlare.
La violazione di questa regola non scritta , come è noto, è severamente stigmatizzata in tutte le culture.
Il Linguaggio verbale e quello non verbale. La relazione tra comunicazione verbale e comunicazione non verbale è ancora controversa . Dopo un periodo di forte enfatizzazione del ruolo della CNV tra gli anni Sessanta e Settanta, a seguito dello sviluppo dell. l’etologia , si afferma ormai una valutazione più equilibrata della potenzialità e dei limiti della CNV.
Innanzi tutto , rispetto al linguaggio verbale , la CNV ha limitate risorse per esprimere il significato proposizionale ( cioè la funzione predicativa e referenziale del linguaggio ) ; la CNV , inoltre ,essendo basata principalmente su segnali analogici e iconici , adatti a fornire una rappresentazione spaziale e motoria della realtà ( Anolli, 2002,237) non può comunicare idee e conoscenze astratte quali giustizia, diritto , innocenza.
Come accennato in precedenza, il ruolo della CNV sembra essere quello di stabilire , definire o mutare le relazioni tra individui. Mentre il linguaggio verbale è fortemente specializzato sul che cosa dire ( funzione informativa e referenziale, col supporto di una struttura proposizionale ) , la CNV è specializzata nella manifestazione di significati e intenti di relazione ( voglio esserti amico , condivido la tua esperienza, sono più importante di te , la tua presenza mi crea ansia, non ho capito chi sei .
E poiché la CNV è spesso costruita su un continuum di significato ( i gesti della paura possono avere una maggiore o minore intensità a seconda dell.intensità dell.emozione stessa) , rispetto al valore discreto del linguaggio verbale , essa comunica con grande efficacia anche cambiamenti dinamici di stati psicologici.
L’homo sapiens ricorre ad una grande varietà di mezzi e canali per la comunicazione.
I diversi tipi di codici si intrecciano profondamente nell.atto concreto della comunicazione , si integrano e si completano.
Quando parliamo spesso le nostre mani o il timbro e l’intensità della nostra voce rinforzano con una rappresentazione iconica ( acustica e visiva ) una nostra idea , come quando, mentre pronunciamo la frase .
Enrico VIII produsse una frattura | +gesto| insanabile con la Chiesa di Roma, facciamo il gesto di tagliare con il palmo della mano. Sul piano neuropsicologico sappiano che linguaggio verbale e linguaggio non verbale utilizzano circuiti neuronali differenti e indipendenti, perché è possibile perdere la capacità gestuale ( aprassia) e non quella verbale ( afasia ) e viceversa .
A differenza delle funzioni linguistiche, infatti, localizzate, con una certa approssimazione in quattro aree corticali, i messaggi cinestetici con valore simbolico sono prodotti nelle aree pre-motorie e motorie ( aree 4 e 6 della citorchitettura di Brodman ) .
Per quanto riguarda gli aspetti cinestetici pertinenti a questa discussione , i così detti movimenti ideo-motori, questi sono controllati da strutture sottocorticali che proiettano nei centri dell’emozione e della memoria quali il talamo e l’amigdala, confermando così la caratteristica qualità non discreta e associativa della CNV .
Pur nella differenziazione funzionale e indipendenza neuronale dei due tipi di comunicazione ( verbale e NV), è ragionevole ipotizzare l’esistenza di un sistema centrale di controllo , una sorta di sistema semantico generale, in cui i diversi tipi di input vengano infine tradotti in simboli equipotenti e integrabili nella comunicazione , dove quindi il messaggio non verbale della palma della mano sul petto e la frase . non sono stato io. si fondono in un unico significato del tipo .
Giuro, puoi star certo, che non sono stato io.
Sarà forse di qualche utilità concludere questa discussione con una tabella riassuntiva degli aspetti caratterizzanti della comunicazione verbale e non-verbale.
In alcuni casi, tuttavia, le opposizioni presenti non sono da intendersi in senso binario ma statistico.

Dove nascono le idee?

Dove nascono le buone e le grandi idee?

E’ una gran bella domanda, ma cominciamo dicendo “dove non nascono”!

Con il cambiamento sempre più rapido, con l’imprevedibilità crescente della concorrenza e con il sempre maggior potere dei clienti, le vecchie fonti di ispirazione sembrano inadatte a stimolare nuove idee.

Non possiamo più aspettarci che nascano solo nei laboratori di ricerca e sviluppo, piuttosto che dal reparto innovazione; queste strutture non bastano più, da sole non sono più sufficienti.

Le grandi idee di cui ogni azienda ha bisogno non vengono più neanche dai responsabili delle strategie, piuttosto che dalla direzione sviluppo nuovi prodotti e servizi, e non verranno mai dai vertici della piramide aziendale.

Molti Presidenti, A.D. o Top Manager hanno esaurito la propria creatività negli incarichi che li hanno portati gradualmente a quella posizione, loro ora devono creare tassi di rendimento minimo tali da convincere gli investitori, devono gestire il business e molte altre cose che richiedono tempo, attenzione e sostegno politico.

Dove andare a pescare nuove, e magari, grandi idee?

  1. Dai nuovi assunti. Essi vedono il mondo con occhi nuovi, interpretando il “nostro mondo” in un modo diverso. Non sono ancora assuefatti al quotidiano ed alla routine, alle piccole inadeguatezze e contraddizioni che noi consideriamo accettabili. Loro pongono semplici domande: perché facciamo così, perché non facciamo così? Se dopo tre mesi che un neo assunto è in azienda dialogassimo con lui, non per commentare le sue performance, ma per invitarlo a commentare quelle operative dell’azienda, avremmo a che fare con una mente ancora fresca per vedere le mancanze, capendo al tempo stesso come vanno le cose. Vi sono buone probabilità che vengano fuori buone idee.
  2. Da chi sta in periferia. In passato andare in aree periferiche dell’azienda sembrava fosse un ostacolo alla carriera; oggi sembra esattamente il contrario, in quanto può offrire la possibilità di prendere parte a qualche innovazione significativa. In periferia si possono sperimentare, testare, provare e perfezionare nuove idee. In periferia accadono le cose e si possono trovare, addirittura creare, nuove e buone idee.
  3. Da chi lavora in prima linea. Spesso le idee migliori provengono da chi ha le “mani sporche” (ad esempio assistenza tecnica e/o operatori di call center che parlano con i clienti e soprattutto li ascoltano). Toyota ha risparmiato milioni di dollari l’anno fornendo ogni operaio della linea di montaggio di carta e penna perché indicasse idee per migliorare il prodotto o il processo. Se si vogliono trovare idee nuove è bene parlare con chi lavora a contatto con il cliente o, meglio ancora, andare a lavorare con lui per un giorno; se ne potrebbero sentire di molto interessanti.
  4. Dai clienti. La presunzione di molti uomini di marketing li porta a considerare il cliente come “un incompetente che non sa cosa vuole, se non sono loro a dirglielo”. Ma i clienti in realtà conoscono i propri gusti, e se gli si propongono delle novità, esprimono prontamente il loro parere. Se si vogliono trovare grandi idee a basso costo è bene creare punti di ascolto in cui il cliente abbia modo di comunicare il proprio pensiero; egli apprezzerà questa opportunità, e noi avremo molto da imparare.
  5. Dalle aziende di successo di altri settori. Il fatto è che non esistono più idee nuove, ma solo nuovi sviluppi di idee preesistenti. E’ bene farsi influenzare da settori  diversi, anche solo lontanamente compatibili con il  nostro; la storia dell’innovazione è costellata di “geni” che hanno preso a prestito, e sottratto idee, da un settore per trasferirle semplicemente in un altro.

Una piccola idea può sempre diventare grande, unita ad altre piccole idee può dar vita a una “nuova idea”; cerchiamole sulle riviste che normalmente non leggiamo, nei libri differenti da quelli che ci appassionano, in frequentazioni diverse da quelle abituali, viaggiando … tutto ciò ci aiuterà a sviluppare una visione periferica, ad aprire le frontiere della mente, ampliandola.

L’etica e l’azienda

La competizione è ancora l’anima del commercio, ma il modo di “fare concorrenza” si sta evolvendo…
Dopo il confronto sui prezzi, il controllo della qualità, la “customer care”, il mercato sta diventando sempre più sensibile ai comportamenti etici da parte delle aziende.
Questa tendenza fa sì che l’attenzione a determinati valori da parte di chi produce merci o servizi sia non solo encomiabile ma, di fatto, economicamente vantaggiosa.
La diffusione sempre più capillare di una cultura “della qualità della vita” (non solo per l’immediato ma considerando anche le prospettive dei propri figli), porta i consumatori a preferire prodotti non solo di qualità, ma realizzati minimizzando gli sprechi di energia, l’impatto ambientale ed attenendosi al principio di responsabilità sociale delle imprese.
Il mercato è sempre più sensibile anche alla condizione dei lavoratori: diverse multinazionali, dopo il lancio di campagne di boicottaggio a causa dello sfruttamento/prevaricazione delle categorie più deboli, hanno dovuto fare marcia indietro.
In sostanza cambia il modo di intendere un’attività: per ottenere il massimo profitto è oggi necessaria una visione globale dell’azienda all’interno del contesto sociale: a questo fine è stata elaborata una Norma internazionale (Social Accountability SA 8000) che consente la certificazione della Responsabilità Sociale.
Insomma, è possibile progettare Sistemi Etici che producano vantaggi concreti.
Non senza importanza inoltre è la percezione che i lavoratori hanno dell’impresa di cui fanno parte: tutte le più recenti teorie sul management insistono sull’importanza della partecipazione di chi lavora agli obiettivi dell’azienda.
Il fatto di attenersi ad un codice “etico” fa sì che le persone lavorino meglio e più volentieri, avendo coscienza che non c’è contraddizione tra gli obiettivi del loro lavoro e quelli della famiglia.
Non più semplici “dipendenti”, dunque, ma convinti collaboratori…
“Una posizione morale è ciò per cui una mente calcolatrice opterebbe dopo aver fatto bene i suoi conti” (Z. Bauman).