Lavorare insieme

Le grandi sfide richiedono un grande lavoro di squadra, e la qualità più necessaria, capace di far fronte alle pressioni, è la collaborazione.
I compagni di squadra collaborativi non si limitano a lavorare semplicemente l’uno con l’altro, ma ogni persona offre qualcosa che aggiunge valore al rapporto e sinergia al team.
Per essere collaborativi occorre mettere a fuoco quattro aree:

1.      Percezione: vedere i compagni di squadra come collaboratori e non come rivali. In ogni squadra vi è il potenziale per la competizione. I fratelli “lottano” per l’attenzione dei genitori, i colleghi gareggiano per aumenti di stipendio o promozioni, i giocatori combattono per giocare e non stare in panchina. Ma per i membri collaborativi di una squadra completarsi l’un l’altro è più importante che competere l’un l’altro.

2.      Atteggiamento: essere di sostegno, non sospettosi verso i propri compagni. Alcune persone sono talmente impegnate nella ricerca del proprio interesse, da essere sospettose verso tutti (compagni, partner, familiari, ecc.). Per completarsi, anziché competere, con gli atri, occorre allontanare i “sospetti”, e questa è una questione di atteggiamento che parte dal presupposto che le motivazioni altrui siano buone, fino a prova contraria. Se ci fideremo delle persone le tratteremo meglio, e in questo caso avremo maggiori possibilità di creare rapporti collaborativi.

3.      Punto focale: concentriamoci sulla squadra, non su noi stessi. Come membro di una squadra quale fra queste due è la domanda che ci facciamo quando accade qualsiasi cosa: “che cosa ci guadagno?” oppure “che cosa produce questo per la squadra?”. Dove focalizziamo l’attenzione? Competiamo o ci completiamo con gli altri?

4.      Risultati: creare vittorie attraverso la moltiplicazione. Lavorando con gli altri possiamo realizzare cose notevoli, lavorando da soli potremmo lasciarci sfuggire molte vittorie. La collaborazione ha un effetto moltiplicatore su tutto ciò che facciamo, perché non sfrutta solo le nostre capacità.
E noi? Siamo persone collaborative?
Lavoriamo contro o per la squadra? Offriamo la nostra collaborazione anche alle persone con cui non ci piace stare?
Siamo dei moltiplicatori di sforzi, o rallentiamo la squadra?
Di solito quando collaboriamo con gli altri vinciamo noi, vincono loro, ovvero vince la squadra.
Immaginiamo dei modi per condividere informazioni e lavorare insieme.
Completiamoci con chi ha punti forti dove noi siamo deboli ed aiutiamo gli altri a completarsi con i nostri punti di forza.
Come singoli individui alcune sfide potrebbero sembrarci insormontabili.
Collaborando, moltiplicando i nostri sforzi, ciò che poteva sembrare impossibile, diventa possibile.
Prima di vincere insieme, occorre lavorare insieme.

Vendite di successo? (prima parte)

Quanti libri sono stati scritti sull’argomento, quante teorie sono state elaborate.
Chiariamoci subito, non c’è trucco, bacchetta magica, elisir che tenga, non esistono segreti per avere successo nella vendita, ma esistono principi, strategie ed azioni che venditori e imprenditori di successo cercano di seguire sempre.
Nella newsletter del 10 settembre 2007, affrontando il tema di “Perché la gente compra”, dicevamo che l’esperto venditore sa che il suo compito principale è creare un’atmosfera che invogli la gente a comprare, ma è anche vero che il venditore, non essendo né un semplice p.r. né un assistente sociale, dovrà attenersi con disciplina ad alcuni punti fermi, consapevole che la loro inosservanza, o sottostima, potrebbe pregiudicare i risultati nella vendita.
Occorre avere passione, non avere sempre e solo in mente la fine del mese, ma una visione di più lungo respiro, che tiene conto del fatto che con quel Cliente vogliamo fare affari oggi, ma anche domani, dopodomani, ecc.
Se ogni volta che staremo vendendo avremo ben presente tutto ciò, ogni singola vendita sarà proiettata sul lungo periodo, creando relazioni di fiducia, consolidate e profittevoli, al contrario di ciò che avviene con la manipolazione e con altre tecniche squallide, che sono costate la reputazione a molti veri venditori.
Come dicevamo non esistono segreti, ma principi, strategie ed azioni che differenziano il “vero venditore” da tutta una serie di brutte e bruttissime copie; proviamo a risponderci sinceramente alle domande che seguono; esse definiscono i punti critici di successo nelle vendite.
1. Credo in me stesso? Dobbiamo credere nelle nostre possibilità e cioè nelle nostre capacità, nel nostro prodotto, nella nostra azienda. La fiducia in se stessi può sembrare banale, ma in pochi la possiedono realmente. Credere di poter essere la migliore risposta che il nostro Cliente possa avere, e credere di poter riuscire, è la cosa più difficile. Richiede un impegno quotidiano di autoconvincimento ed autoincoraggiamento.
2. Il mio ambiente favorisce la mia autostima? Avere familiari e colleghi positivi che ci incoraggiano è di grande aiuto, ma creare i presupposti perché ciò sia possibile è compito mio.
3. Le persone che frequento sono “generose ed emanano energia” o sono “avare e la succhiano avidamente”? Stiamo alla larga dalle persone velenose e che sembrano non arrivare mai da nessuna parte. Troviamoci uno o due consiglieri di fiducia. Il genere di persone che frequentiamo è quello a cui probabilmente finiremo per appartenere.
4. Quanto tempo investo ogni giorno per imparare qualcosa di nuovo? Se non impariamo qualcosa ogni giorno, lo faranno i nostri concorrenti.
5. Ho ben chiari i miei piani ed obiettivi? Prepariamoci con lo studio, pianifichiamo i nostri obiettivi e pensiamo a come raggiungerli.
6. Sono prezioso per gli altri? Più valore acquisteremo, più il mercato ci ricompenserà. Facciamoci conoscere come risorsa e non come venditore; il nostro valore è legato alle nostre conoscenze ed alla nostra volontà di aiutare gli altri.
7. Sono valide le mie risposte? Più sapremo risolvere i problemi dei nostri Clienti, più avremo vendite di “successo”. Loro vogliono risposte e per fare questo dobbiamo conoscere a fondo ciò che offriamo e spiegarglielo in termini di come possono utilizzarlo.
8. So individuare le opportunità? Per cogliere le opportunità il segreto è mantenere sempre un atteggiamento positivo, il che ci permetterà di intravedere le possibilità anche in situazioni che all’apparenza sembrano negative e d’ostacolo.

E’ l’Io che fa tutta la differenza

L’Io (ego) è la ragione per cui molte cose che dovrebbero capitare non capitano, mentre altre che non dovrebbero capitare, capitano!
L’Io di una persona, anche molto prepotente, può diventare un nostro prezioso alleato.
Molti accordi, e molti affari, si concludono solo perché l’Io di qualcuno vi si ritrova così coinvolto da non potersi permettere, psicologicamente, di non concluderli.
Se saremo in grado di leggere l’Io e capire il suo impatto, controllarlo (frenandolo, stimolandolo, riducendone i danni) diverremo beneficiari di molti ritorni positivi.
La grandezza dell’Io di una persona è una delle cose più facili da accertare.
Ci sono persone che hanno un Io gigantesco, ma gigantesco non significa necessariamente forte!
Spesso significa proprio il contrario, significa che qualcuno sente il bisogno di imporsi perché non ha una gran considerazione di sé.
Avere a che fare con Io forti è preferibile in quanto queste persone sono normalmente più pronte ad assumersi rischi ragionevoli, non hanno secondi fini e sono più sbrigative.
Gli Io deboli sono più difficili da leggere, sono meno sicuri di sé e quindi trattare con loro, che si tratti affari o di organizzare una “zingarata”, richiede più tempo e rende meno.
Una volta determinata la forza dell’Io dell’interlocutore possiamo cominciare a domandarci:
• Quanto è sincero?
• Quanto ci mette a prendere una decisione?
• E’ solido o torna ripetutamente sulle decisioni vacillando?
• Considera le cose per come sono o come vorrebbe che fossero?
• E’ ostinato o ragionevole?
• Guarda più alla forma o alla sostanza?
• Quali eccessi e quali vanità lo seducono?
• Dice una cosa e ne fa un’altra?
• E’ uno da non avere mai alle spalle?
Quando due Io si incontrano (o scontrano) cadono talvolta nella tentazione del “duello” tra i propri io, ovviamente non per collaborare, ma per cercare di avere la meglio.
Invece di sfidare sempre l’Io dell’altro, è molto più facile fare un piccolo passo indietro per valutarne, serenamente, i pro e i contro per capirne l’incidenza sull’accordo che dovremmo raggiungere, usando queste “informazioni-impressioni” a nostro vantaggio.
Non dimentichiamoci mai di tenere sotto controllo il nostro Io, in quanto, se ne fossimo obnubilati, accecheremmo la nostra conoscenza degli altri.
Dobbiamo essere consapevoli dei nostri punti di forza e delle nostre debolezze, e di come queste caratteristiche incidono nei nostri rapporti con gli altri.
E’ difficile agire con efficacia se le nostre conclusioni su ciò che “può muovere” gli altri, o che “può funzionare” con gli altri, si basassero sul nostro Io, anziché sul loro.
E’ l’Io che fa tutta la differenza … tra la teoria e la pratica, tra i pii desideri e la vita vera, tra come vanno le cose e come vorremmo che andassero, tra quello che ci hanno insegnato e quello che nessuno ha la possibilità di insegnarci.

Pensare, descrivere, confrontarsi, decidere

Pensare è la massima risorsa dell’uomo, e per quanto si diventi bravi, occorre sempre desiderare di essere migliori. Di solito le uniche persone soddisfatte della loro capacità di pensiero sono quei “poveretti” che credono che il pensiero serva solo a togliersi il gusto di dimostrare che hanno ragione.
La maggior difficoltà che si incontra nel pensare è la confusione del cercare di fare troppe cose alla volta; emozioni, informazioni, logica, creatività, desideri si accavallano in noi, generando una gran dispersione di energie.
Questo è evidente nei dibattiti, nelle riunioni ed in qualunque circostanza in cui più persone si affannano in una discussione nel tentativo di esplorare un argomento, ma lo è altrettanto nel sistema decisionale di ogni singolo individuo.
Con la discussione si perde molto tempo e l’argomento non viene analizzato esaurientemente, perché, generalmente, ognuna delle parti è interessata alla difesa delle proprie posizioni; e la “confusione” dentro di noi, ed intorno a noi, aumenta. Qualunque “discussione” noi si debba affrontare, qualunque problema si debba risolvere, qualunque piano strategico si debba predisporre, ci dovremo sempre confrontare con alcuni, se non con tutti, questi elementi:
• Fatti e dati oggettivi
• Interpretazione ed impatto emotivo
• Pro (perché si!)
• Contro (perché no!)
• Rischi
• Opportunità
• Priorità
• Soluzioni “scontate”
• Soluzioni “innovative”
Anziché affrontare la “questione” da un punto di vista meramente dialettico (come avviene il più delle volte, con risultati a dir poco sconfortanti), nel quale sentimenti, fatti, ragioni, desideri, ecc. si mischiano, si confondono e confondono, dovremmo sospendere il giudizio, affrontando la “questione” con la voglia innanzitutto di conoscere e far conoscere, capire e far capire, ascoltando, domandando, descrivendo, al fine di creare una mappa chiara e leggibile (a tutti) al fine di facilitare il percorso di scelta e condivisione delle decisioni.
Andare oltre le proprie ragioni, affrontando i diversi punti, uno per volta, permette di separare le emozioni dalla logica, la creatività dalle informazioni, ecc. dirigendo il nostro pensiero ad analizzare le questioni sul tappeto dalle diverse angolazioni (alcune delle quali meno familiari, ma non per questo meno utili) e fondendo le “diverse ragioni” in un’unica ragione.
Potremo così beneficiare di “pensieri” mirati ed efficaci, guadagnando tempo nelle decisioni, ed evitandone la perdita in controversie e discussioni sterili.
Quante più saranno le persone coinvolte in un processo decisionale, quanto più questo metodo si dimostrerà efficace, nel raggiungere in tempi “brevi e ragionevoli” i risultati che tali incontri si prefiggono.

Negoziare: lo stato d’animo

La strategia di vendita è come ogni altra forma di genio: un’infinita capacità di soffrire!!!
Sviluppare positivamente un cliente significa che i rapporti d’affari non sono mai statici. O migliorano, o peggiorano.
Non inganniamoci nel credere di avere un rapporto stabile, che continua indefinitamente e rimane invulnerabile alla concorrenza. La compiacenza è il peggior peccato, con i clienti: affrontiamo il fatto, peraltro scomodo, che quanto abbiamo compiuto ieri è già storia passata, ciò che conta è cosa faremo oggi e cosa faremo domani per il cliente.
E’ la nostra abilità nel negoziare che determina se possiamo o no influenzare il nostro ambiente conferendoci un senso di padronanza sulla vita.
Si tratta, in definitiva, di saper usare correttamente le informazioni in nostro possesso, gestire la pressione del “tempo” ed avere la capacità di saper influenzare se stessi e gli altri, per far sì che le cose avvengano nel modo desiderato.
La formula è di una semplicità quasi ridicola: crediamo fermamente di avere la padronanza della situazione, e comunicheremo questa sensazione di sicurezza alle nostre controparti.
Siamo noi a decidere il loro modo di vedere, credere e reagire nei nostri confronti. Non dobbiamo avere fretta. In ogni negoziato le concessioni più significative e le ipotesi d’accordo hanno luogo a ridosso della scadenza; vi è una scadenza “scritta” e ve ne è una “vera”. Prendere alla lettera la scadenza “scritta” può voler dire cominciare a negoziare, facendo concessioni, troppo presto, avvantaggiando la controparte.
Dobbiamo essere pazienti, mantenendoci calmi, ma pronti a cogliere il momento giusto per agire: come regola generale la pazienza ripaga. Può darsi che la cosa da fare, quando non sappiamo cosa fare, sia proprio non far niente. Mosse precipitose sono da compiersi solo quando è sicuro che vadano a nostro vantaggio.
Di norma i migliori risultati non si ottengono con la fretta, ma con la calma e la perseveranza: la gente può non cambiare, ma, col passare del tempo, cambiano le circostanze.
Ricordiamoci che cambiamenti e nuove idee vengono accettati solo se vengono presentati lentamente e a piccole dosi, e che il nostro miglior alleato è la capacità di ascoltare. Se ci concentriamo attentamente su quello che ci passa davanti potremo imparare una quantità di cose riguardo ai sentimenti, alle motivazioni e alle effettive necessità della controparte: ascoltare e osservare attentamente non significa solo recepire ciò che viene detto ma cercare di capire quello che viene omesso. Un negoziato è qualcosa di più che uno scambio di oggetti o prestazioni materiali. E’ un modo di agire e di comportarsi che può sviluppare comprensione, accettazione, rispetto e fiducia; quando gliene viene data la possibilità la maggior parte della gente cerca di essere accomodante.

Superiori, colleghi e clienti

In noi s’intersecano tutte le relazioni che intratteniamo con gli altri, a qualsiasi livello.
Ogni relazione richiede tempo ed energia, può creare problemi o portare a soluzioni, può rafforzarci o esaurirci, arricchirci o impoverirci. Le nostre interazioni, e come le viviamo, influenzano e condizionano il nostro “benessere”.
La relazione con una persona, chiunque sia, ci impegna ad un certo livello di responsabilità, perché sta sempre a noi far si che il legame sia utile o dannoso, temporaneo o stabile. Le persone che ci stanno intorno hanno un grandissimo potenziale nei nostri confronti. Dalle relazioni con loro potremo trarre sempre vantaggio, se solo capiremo l’importanza della reciprocità, e sapremo far uso delle nostre doti umane.
Superiori:
I superiori hanno sempre qualcosa che può tornarci utile, che siano esempi da seguire o da evitare. Di solito i “capi” più difficili da trattare sono quelli da cui vengono le lezioni più importanti, e sono un ottimo addestramento in vista del futuro.
Se il “capo” è una persona “odiosa”, incapace di trattare con gli altri e difficilmente accontentabile, impareremo a dare sempre il meglio di noi stessi, ad essere sempre molto presenti ed attenti, ed a sviluppare una buona dose di pazienza e tolleranza.
Ancora più importante impareremo esattamente cosa non fare in futuro in analoghe posizioni di responsabilità. Se invece il nostro “capo” è una persona squisita, che riconosce, apprezza ed esalta in ogni modo i meriti delle risorse umane affidategli, allora impareremo l’importanza di trattare sempre i collaboratori con rispetto e dignità.
Colleghi:
I colleghi sono preziosi, condividono la nostra vita professionale quotidiana, ed a seconda di come li trattiamo, possono diventare alleati o nemici.
Pensiamoci un attimo: noi per loro siamo un appoggio o un ostacolo? Sappiamo condividere le loro gioie ed i loro momenti neri? Li consideriamo amici o impedimenti sul nostro cammino? Cerchiamo di primeggiare su di loro anche in modo sleale? Siamo compagni di lavoro detestabili, egoisti e pettegoli? Ricordiamoci, i nostri colleghi vivono con noi, ci osservano e ci giudicano; possiamo anche sfruttarli, scavalcarli e poi dimenticarli, ma loro non dimenticheranno e, nell’eventualità sempre possibile di un rovescio di fortuna, saranno loro a negarci aiuto e conforto.
Clienti:
I clienti sono l’essenza di qualsiasi attività e vanno conservati come risorse preziose.
Senza di loro noi forniremmo un prodotto ed un servizio inutile.
Prendiamo per esempio i venditori: un errore comune è quello di trattare i potenziali clienti da amici finché si conclude l’affare e di ignorarli subito dopo; questo comportamento è sufficiente a rovinare una reputazione, perché a nessuno fa piacere sentirsi usato.
Un cliente è il visitatore più importante. Non è lui che dipende da noi, siamo noi a dipendere da lui. Non rappresenta un’interruzione del nostro lavoro, ma il suo fine. Non è un aspetto secondario della nostra attività, ma una sua parte integrante. Non siamo noi a fargli un favore servendolo, è lui che lo fa a noi offrendoci questa opportunità.
(Mahatma Gandhi)

Intuizione, ascolto, osservazione

Intuizione è la capacità di gettare utilissime occhiate nell’animo altrui, semplicemente osservando con finezza … nella maggior parte degli incontri d’affari (e non solo quelli) c’è da vedere più di quanto appare, c’è tutta una serie di dinamiche personali operanti appena sotto la superficie: a volte si tratta di cose che la gente dice o fa inconsciamente, il modo di distogliere lo sguardo quando si sente una certa domanda o si affronta un certo argomento.
Simili tracce abbondano, ma la maggior parte delle persone è troppo occupata ad ascoltare se stessa per dar retta agli altri, o troppo impegnati ad indossare la loro bella presenza, per notare quella attiva degli altri. Per me è inimmaginabile una persona di successo (negli affari, nel sociale, nel privato) che non abbia qualche intuito in fatto di esseri umani.
E’ l’intuizione che ci permette di vedere oltre il presente: la vera natura di un individuo, la sua vera personalità, non cambia a seconda delle situazioni, rimane la stessa. Più conosciamo una persona e più riusciamo a penetrare oltre la facciata, meglio sapremo predire come si comporterà in tutte le situazioni concepibili; una tale conoscenza è di valore inestimabile.
L’intuito esige che tutti i sensi siano ben vigilanti, che parliamo di meno ed ascoltiamo di più: osservare ed ascoltare, tenere occhi e orecchie ben aperti … e la bocca chiusa!
La capacità di ascoltare, di sentire quello che uno sta dicendo, è anche più importante dell’intuizione (nella vendita, per esempio, è assolutamente fondamentale).
In tutte le situazioni di lavoro ricorrenti è molto diverso il modo di comportarsi di chi sa ascoltare e di chi non sa farlo, ed anche i risultati.
La capacità di osservare, è la possibilità di formarsi impressioni basate più su ciò che si vede, piuttosto che su quello che si sente.
L’atto di osservare è un atto di aggressione, ciò che le persone dicono di se stesse, i segnali che mandano sono sia consci, che inconsci. (linguaggio del corpo)
Osservare aggressivamente significa andare oltre le apparenze, convertire i segnali lanciati dall’altro in percezioni utilizzabili.
Non bisogna essere frettolosi, arrivando troppo in fretta alle conclusioni (ho visto fin troppe volte i cosiddetti maghi del linguaggio del corpo prendere delle cantonate galattiche) sopravvalutando gli aspetti convenzionali o leggendo significati dove non esistono. Bisogna saper riconoscere l’enorme differenza, nella postura, tra una posizione e una posa.
E’ ridicolo quando le persone posano, quando la loro disinvoltura è un po’ troppo studiata, quando i loro uffici sono tappezzati di diplomi – motti e così via, messi lì per creare impressioni.
Bisogna stare in guardia con gente di questo genere, è facile che gli prema più la forma, che la sostanza, più le apparenze, che i risultati concreti.
Naturalmente il più fertile e proficuo campo d’osservazione sono gli occhi; gli occhi vi diranno ciò che uno sta pensando davvero, anche quando tutto il resto è orientato in un’altra direzione.
Ricordiamoci sempre che le parole possono tradire, i comportamenti no, e se l’intuito è la nostra capacità di “percepire oltre il presente”, il saper osservare ne è il miglior alleato.

DIVERSITA’

“Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo guardare le cose sempre da angolazioni diverse”
Robin Williams in “L’attimo fuggente” di Peter Weir.
Tutta l’esperienza formativa di ciascun essere umano è costantemente attraversata e costellata da continue presenze dell’ALTRO.
Le relazioni interpersonali sono di fatto una “galleria di volti” che irrompono nel nostro spazio vitale e ai quali rispondiamo in forme differenti e a ciascuno, a suo modo, in forma singolare.
Entrare in relazione con l’altro innegabilmente vuoi dire entrare in contatto con un’altra identità, cioè con qualcuno che è “diverso” da me. E attraverso questo gesto, oltre a sviluppare maggiore coscienza della mia identità, io posso diventare più ricco, dell’alterità riconosciuta.
Eppure a volte, a livello sociale (ed anche educativo) si cerca di annullare la “diversità” che ci rende tutti così meravigliosamente unici, si tende a lavorare più sul collettivo che sull’individuo, a creare universi omologati, comunità di simili dove il singolo si deve identificare con il gruppo e la pluralità dei soggetti non sempre viene rispettata. Così l'”alterità” e la “diversità” vengono attribuite non a ciascun individuo in quanto essere differente da un altro, ma solo ad alcuni che presentano “particolari caratteristiche” che li rendono dissimili rispetto all’omologazione dei gruppo. Ed è proprio per questo che la presenza dei cosiddetto “diverso” nella società come a scuola genera conflitti, mette in crisi il normale funzionamento dei sistema e condiziona in modo forte la formazione e la crescita dei singoli, tanto più se si tratta di bambini e/o adolescenti.
La “diversità” è cioè spesso vista in chiave negativa, come “minaccia” della propria identità e per questo la presenza dei “diverso” frequentemente genera sentimenti di paura, ansia, sospetto.
Basti pensare a quanto la presenza di alunni stranieri o di portatori di handicap o dei cosiddetti alunni difficili abbia creato in passato ( e talvolta crei ancora) notevoli timori negli educatori e difficoltà relazionali all’interno dei gruppo.
Se si riuscisse invece a percepire la “differenza” non come un limite alla comunicazione, ma come un “valore”, una “risorsa”, un “diritto”, l’incontro con l’altro potrebbe essere in certi casi anche scontro, ma non sarebbe mai discriminazione. E l’educazione diventerebbe scoperta e affermazione della propria identità e, contemporaneamente, valorizzazione delle differenze. (1)
Invece è il pregiudizio, inteso proprio come giudizio superficiale non avvallato da fatti, ma da opinioni, il motore che a volte muove un po’ le azioni e i comportamenti di tutti noi, condiziona le nostre relazioni sociali, ostacolando a volte appunto le opportunità di contatto, incontro, esplorazione, scoperta che sono i fondamenti dei rapporto con l’altro da sé.
Ma il pregiudizio non è innato, ha piuttosto il suo fondamento nelle influenze familiari, ambientali, sociali, e si struttura già dalla prima infanzia. Pertanto, se crediamo sia giusto cercare di limitare il più possibile l’insorgere di pregiudizi, è fondamentale intervenire a livello scolastico, educativo, familiare per fare della diversità una vera ricchezza, un nuovo paradigma educativo e per stimolare i bambini e i ragazzi a pensare criticamente piuttosto che dir loro quello che devono pensare. In quest’ottica uno dei compiti della scuola dovrebbe essere quello di educare alla differenza, all’altro, al diverso, per creare i presupposti di una cultura dell’accoglienza e per impedire l’omogeneizzazione culturale. “La nostra ricchezza collettiva, ha scritto Albert Jachard, è data dalla nostra diversità. L’altro, come individuo o come gruppo, è prezioso nella misura in cui è dissimile. Oggi più che mai la scuola deve educare gli studenti a considerare il diverso non come un “pericolo” per la propria sicurezza, ma come “risorsa” per la crescita.
Tuttavia una vera pedagogia della differenza si esprime non certo in prediche e indottrinamenti, né con tecniche di persuasione più o meno sofisticate, ma anzitutto sperimentando quotidianamente la realtà di una scuola come una “comunità di diversi”, che non emargina chi non è “uguale” o chi non è in grado di seguire il ritmo dei migliori.
E’ chiaro che, perché tutto ciò avvenga, è necessario porre come elementi centrali della relazione educativa l’ascolto, il dialogo, la ricerca comune e l’utilizzo di metodologie attive e di tecniche d’animazione in grado di sviluppare le capacità critiche di porsi delle domande, di imparare a mettersi nei panni altrui, di attivare delle reti di discussione, di uscire dagli schemi, di essere creativi e divergenti” (1).
E il linguaggio audiovisivo in generale e cinematografico in particolare diventano molto utili per dar corpo e vita ai progetti e per tradurre idee in concreti percorsi di avvicinamento e conoscenza delle culture dell’umanità.
L’analisi di tali linguaggi dovrebbe ruotare attorno ai seguenti nuclei‑chiave:
didattica dei decentramento dei punti di vista
pedagogia della decostruzione
convivialità delle differenze
antropologia della reciprocità
Cosciente dei peso che la civiltà delle immagini ha nella costruzione dell’immaginario individuale e collettivo, nella creazione di visioni dei mondo, di rappresentazioni dell'”altro” e dell'”altrove”, mi pare importante e utile suggerire dei percorsi che, proprio a partire dai linguaggi audiovisivi, siano in grado di rispondere a molteplici esigenze e consentano di:
attivare dei percorsi di analisi e decostruzione delle immagini
“graffiare la superficie” e oltrepassare la cornice dello schermo
educare non solo a vedere, ma anche a guardare con occhi più attenti, critici, selettivi
analizzare i meccanismi e individuare gli artifici su cui si fonda la comunicazione massmediale
Percorsi attraverso i quali proporre situazioni audio‑visive finalizzate:
al potenziamento di abilità percettive e al decentramento percettivo
allo sviluppo della capacità di mettersi nei panni dell’altro, di uscire dal proprio punto dì vista per assumere quello altrui allo sviluppo della capacità di guardare le cose, il mondo, da diverse angolazioni
percorsi capaci di:
· aiutare a individuare e mettere in discussione i principali stereotipi utilizzati dai media nella messa in scena dell'”altro”
· educare all’identità, alterità, diversità
· stimolare atteggiamenti solidali nei riguardi di ogni persona
· sviluppare visioni multiprospettiche delle realtà prese in considerazione
· viaggiare virtualmente intorno al mondo attraverso i popoli che lo abitano
NUCLEI DI LAVORO DEI PERCORSI
I nuclei di lavoro fondamentali di tali percorsi dovrebbero essere:
– Fenomeni della percezione visiva. Arte e percezione. Percezione attraverso l’occhio della macchina da presa.
– Fisionomie dell'”altro” e del “diverso”. Pregiudizi e stereotipi messi in scena dagli “occhi” del cinema.
– Le “maschere” della rappresentazione dello “straniero”, dell’altro, del “nemico” in occidente, dall’antichità ad oggi
– L’Italia e gli italiani nella pubblicità, nel cinema e nella televisione europea e internazionale
– L’Africa e gli africani nelle stampe antiche, nella pubblicità, nel cinema, nella fotografia e nei fumetti occidentali.
“Disegnammo quell’isola che poi avremmo ripreso; disegnammo anche le nuvole e le montagne. Era tutto finto: una grande lezione su come si può disegnare un film. L’unica cosa vera è l’oceano. Peccato, purtroppo non ho potuto creare l’acqua in altro modo.” Josef von Stemberg
“Io voglio mostrare a cosa può assomigliare un albero quando lo si vede per la prima volta nella vita. E’ come se fosse la prima volta che si aprono gli occhi per vedere com’è fatto il mondo. Cerco di trovare o creare un vocabolario di nuove immagini in cui la realtà diventi irreale e visionaria. Cose reali, ma in trance, simili ad allucinazioni” Werner Herzog
“Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. ” Michelangelo Antonioni
“L’importanza sia nel tuo sguardo, non nella cosa guardata” André Gide
“La missione del cinema è più quella di dirigere i nostri occhi verso gli aspetti del mondo per i quali non avevamo ancora avuto sguardi, che non quella di porre davanti ad essi uno specchio deformante, sia pure di buona qualità.” Eric Rohmer
“La cosiddetta illusione della proiezione non è che un’analisi meccanizzata del modo in cui noi vediamo il mondo. Per cui la distinzione tra l'”illusione” del film e la “realtà” della nostra esistenza quotidiana è superficiale; fondamentalmente, anzi, i due termini sono uguali e intercambiabili” King Vidor
‘Nel cinema l’immaginario e il reale sono nettamente separati eppure sono una cosa sola, come l’anello di Moebius che possiede una e due facce insieme, come la tecnica del cinema‑verità che è anche una tecnica della menzogna.” Jean‑Luc Godard
“IL cinema esprime la realtà con la realtà. La realtà non è che del cinema in natura. L’intera vita è cinema naturale e vivente. Il cinematografo non è dunque che il momento “scritto” di una lingua naturale e totale, che è l’agire nella realtà” Pier Paolo Pasolini
“Una macchina da presa è l’occhio più indiscreto del mondo. L’arte dei regista è quindi un’arte di buchi di serratura. E’ attraverso il buco di una serratura che ci fa sorprendere la vita.” Jean Cocteau
“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” Marcel Proust
‘Il mio paese ideale è l’immaginario. E l’immaginario è il viaggio tra ciò che è davanti e ciò che è dietro all’obiettivo. ” Jean‑Luc Godard

Sport e motivazione

Con il termine “motivazione” si indica il fattore fisiologico, emotivo, cognitivo che organizza il comportamento individuale verso uno scopo.
Le motivazioni all’attività ludico-motoria e sportiva nascono da bisogni relativi:
Al corpo Ricerca di esperienze dinamiche piacevoli
All’ambiente Padroneggiamento della realtà esterna
Agli altri Identificazioni positive con il gruppo dei pari
Al sè Esplorazione del valore di sé e ricerca di autoaffermazione motivazioni dell’Istruttore:
-gratificazione del compito (piacere per ciò che si insegna)
-successo personale (prestigio o denaro)
-orientamento al gruppo (socialità e buona interazione con altre persone)
Egli esprime due atteggiamenti o aree di fattori motivanti:
-atteggiamenti che esprimono la volontà di lavorare in una prospettiva pedagogico-educativa, con obiettivi fortemente correlati allo sviluppo negli allievi di competenze psicologiche e relazionali;
-atteggiamenti che esprimono valori prettamente tecnici e quindi correlati a modelli didattici di tipo addestrativo finalizzati all’apprendimento e all’ affinamento prestazionale e motorio.
Questa distinzione volutamente schematica è utile nel determinare con l’allievo una più o meno efficace comunicazione.
Nel nostro contesto significa realizzare una simbiosi tra abilità tecniche personali e ruolo ed equilibrio nell’ambito del gruppo di appartenenza.
Motivazioni dell’Allievo:
L’allievo inteso come unità psico-somatica deve coinvolgere ambedue le sfere: ludico-sociale e estetico-prestazionale contemporaneamente, per poter avere una esaltazione dei fenomeni relativi alla prestazione, anticipando così l’insorgenza dei sintomi veri e propri della sfiducia, della noia e della fatica.
Molto spesso gli istruttori rischiano inconsapevolmente di far scadere le sessioni dei corsi a causa di ripetizioni stereotipate, che producono negli allievi l’effetto della noia che prende spazio all’interno dell’individuo per mancanza di soddisfazione verso un’attività che rimane estranea alla propria realizzazione.
Senza dubbio la motivazione è un fenomeno molto complesso, ci risulta spesso difficile capirne l’incidenza su un tipo di comportamento piuttosto che un altro.
Resta logico pensare che una persona più è spinta ad imparare una particolare attività, più vi si eserciterà, è altrettanto vero che l’eccessiva sollecitazione può stancare e provocare rifiuto e abbandono.
Potremmo dire che noia e monotonia affrettano l’insorgere della fatica psico-fisica e della stanchezza; diminuiscono il livello di attenzione e quindi la motivazione e voglia di proseguire nei confronti della situazione proposta e/o richiesta.

MOTIVAZIONI ALLO SPORT o GIOCO.
Il gioco costituisce per il bambino l’esperienza più ricca, impegnativa e decisiva. E’ accertato che i bambini ai quali non sia stata data la possibilità di giocare non dispongono di quella ricchezza di vita interiore, che può ricevere stimolazione dal gioco (Gabrielli).

Secondo numerosi Autori, gli stimoli che attivano l’organismo giovane senza stancarlo accelerano la maturazione. Il gioco è fra gli stimoli più importanti attraverso cui il bambino riesce a raggiungere una rapida maturazione della corteccia cerebrale. L’attività ludica si colloca come dato integrativo capace di agevolare la maturazione intellettiva e i processi di adattamento e di acquisizione. Sul piano conoscitivo il gioco si rivela fondamentale in quanto capace di anticipare, nell’imitazione dell’adulto, i ruoli e i comportamenti delle età successive, funzionando
quindi da strada maestra verso la socializzazione. Sul piano affettivo il gioco si struttura nell’età evolutiva secondo finalità diverse: di natura competitiva, partecipativa, comunicativa; ed in forme creative, esplorative, rassicurative, a seconda di quali siano i vettori motivazionali. Si potrebbe affermare che per ogni stato d’animo esiste un gioco. O, meglio, che le infinite possibilità e modalità di gioco sono realizzate e adattate al soddisfacimento delle esigenze psicologiche del momento. Il bambino si crea col gioco il proprio mondo e ricostruisce una situazione spontanea in cui proietta tutte le tendenze che corrispondono alla sua realtà interiore. Il gioco infantile non è soltanto la soddisfazione immediata di quel principio del piacere che non vuole arrendersi al principio della realtà ma, come dice Freud, si manifesta sotto l’influenza del potente desiderio individuale di crescere. Il bambino trova nel gioco uno sfogo che gli consente un confronto paradossale con la realtà: si crede libero e non è più frustrato nel suo rapporto con il reale, crea situazioni immaginarie ed attivamente le affronta e domina, aiutandosi così a sopportare e superare l’ansia delle concrete situazioni vitali. Il gioco nel bambino ha una funzione rassicurante in quanto gli permette:
– di esercitare un controllo onnipotente sulle cose e sulle persone, liberandolo da un penoso senso di impotenza e di dipendenza;
– di affermarsi competitivamente sul mondo provando le proprie capacità e confermandosi nella sicurezza;
– di provare e sperimentare il rischio e la paura simulati senza compromettere la propria integrità o AGONISMO. L’agonismo è un’esigenza innata dell’uomo di misurarsi con la natura, con gli altri e con se stesso. Secondo l’approccio della psicologia dello sport, l’atteggiamento agonistico rappresenta il saper incanalare in maniera intenzionale, razionale e specifica l’aggressività che consente all’atleta di affrontare la competizione o AFFILIAZIONE. a livello psicologico il periodo adolescenziale è quello della massima spinta ad appartenere ad un gruppo, le motivazioni possono essere ricercate in: assicurazione, accettazione, essere stimato. Questo serve al ragazzo per bilanciare insicurezze personali, atteggiamenti di impegno, abnegazione, cooperazione. E’ importante riflettere sulle esperienze di socializzazione ricche di significato quali le scuole di scacchi e l’attività nei gruppi. Esperienze ampiamente da rivalutare in una società giovanile basata sulla dipendenza da tv e video-game. Una volta inserito in un gruppo il giovane entra nella cosiddetta “socializzazione secondaria” ovvero interiorizzazione dei valori dell’attività sportiva, tendendo ad assimilare lo schema ideologico ( norme+mete+valori) del proprio gruppo di riferimento, divenendone parte attiva.
Nel periodo dai 10 ai 16 anni l’appartenenza ad un gruppo rappresenta una delle motivazioni allo sport più importanti, sia nello sport di squadra che nello sport individuale.
Negli scacchi possiamo parlare di sport individuale, praticato con l’ausilio, il supporto e la complicità del gruppo-squadra.
o AUTOAFFERMAZIONE. Possiamo dire subito che rappresenta la condizione di chi mira ad esprimere pienamente se stesso (nel rapporto con la propria identità e nei riguardi del contesto ambientale “ristretto” ed “allargato”), la propria personalità (in maniera proporzionale alle proprie capacità introspettive) ed il proprio ruolo (essere umano integrato nel tessuto sociale, come partner, genitore, figlio, fratello, soggetto economicamente produttivo, etc.)
Fin dalla notte dei tempi, l’autoaffermazione (dalla scoperta del fuoco alla realizzazione dei sincrotroni) è sempre stata legata al termine “successo”, inteso come esito positivo di un evento risultante da una programmazione accurata ed una esecuzione che tenesse in debito conto, fattori motivazionali adeguati e competenze specifiche di alto profilo.
Lo sport porta l’individuo all’autoaffermazione attraverso la prova.
IL COMPORTAMENTO AGONISTICO
E’ la motivazione che determina la persistenza, la direzione, l’intensità del comportamento individuale e quindi del comportamento agonistico.
Diverse ricerche mostrano che gli atleti con alto livello di motivazione:
1. dimostrano un’elevata persistenza al compito
2. sono rapidi nell’esecuzione degli esercizi
3. sono orientati maggiormente al compito e meno sulle persone
4. assumono con soddisfazione la responsabilità delle proprie azioni
Gli atleti con queste caratteristiche sono motivati a raggiungere il successo e vedono la vittoria come una conseguenza della loro abilità.
MOTIVAZIONE E APPRENDIMENTO
Una efficace metodologia di insegnamento è in grado di stimolare e sostenere nel tempo il processo
di apprendimento dell’allievo.
o Utilizzare un ampio repertorio di mezzi didattici al fine di stimolare la curiosità e mantenere l’ attenzione
o I contenuti e gli obbiettivi devono essere chiari e valutabili
o Proporre una partecipazione attiva alle lezioni.
o Organizzare situazioni di apprendimento atte a promuovere l’autostima, l’appartenenza al
gruppo, l’identificazione con l’insegnante.

LA DINAMICA DELLA MOTIVAZIONE

Non è irragionevole sostenere che la domanda fondamentale in psicologia sia: perché la gente fa quel che fa?

Sembra chiaro che parte del comportamento umano è guidata da scopi, vale a dire diretta a raggiungere uno scopo o un risultato. Sicché ci comportiamo in una determinata maniera perché vogliamo raggiungere qualche risultato. Premiamo una serie di tasti sulla macchina per scrivere perché vogliamo scrivere una lettera. Mangiamo perché abbiamo fame e vogliamo ridurre questo stimolo. Andiamo all’università
perché vogliamo ottenere una laurea.

Le ragioni, o gli scopi, che appaiono dirigere il nostro comportamento, sono i nostri motivi e i risultati che il nostro comportamento sembra diretto a raggiungere sono i nostri obiettivi. Questo concetto di motivazione, per quanto possa apparire semplice si è dimostrato molto difficile da analizzare sperimentalmente.

Parte del problema è che le stesse azioni o gli stessi comportamenti possono essere coerenti con motivi molto differenti.

Un venditore può ridere alla nostra barzelletta perché è divertito o perché vuole venderci qualcosa. Un uomo invitato a un ricevimento può accettare un bicchiere di vino perché ne apprezza il gusto, o ricerca l’effetto rilassante dell’alcol, o è assetato, o non vuol sembrare diverso dagli altri. Senza contare che i suoi motivi possono essere una mescolanza di queste possibilità.
Un altro problema nello studiare i motivi di determinati comportamenti è che la gente può essere del tutto inconsapevole delle ragioni soggiacenti alle proprie azioni.

È possibile credere di stare facendo qualcosa per una ragione quando, in realtà, il vero motivo è un altro.

I motivi inconsci, in effetti, sono stati posti da Sigmund Freud al centro della sua teoria della motivazione umana.

Una donna potrebbe credere consciamente, di aspirare alla presidenza di un’azienda perché è un lavoro ben remunerato, mentre il suo motivo reale potrebbe essere il desiderio di mostrare che può eguagliare il padre, morto da tempo, nella riuscita sociale.

Anche i motivi di un atto semplice come quello di mangiare possono essere difficili da cogliere: l’adulto che mangia un gelato è semplicemente affamato o sta compensando la propria solitudine con la ricompensa che la madre usava dargli quando era bambino?

Un certo orientamento allo studio della motivazione umana sottolinea i bisogni biologici fondamentali che condividiamo con gli animali. Alla luce dei meccanismi fisiologici che condividiamo con essi, si può dire molto del mangiare, del bere, e della sessualità; tuttavia, anche queste attività umane sono fortemente influenzate dall’apprendimento.

In questa sede esamineremo diverse forme della motivazione umana; da quelle chiaramente collegate ai bisogni biologici, a quelle che sembrano specificamente umane e molto distanti da qualunque ovvio bisogno biologico.

Prima di procedere, sarà utile soffermarsi su alcuni punti fondamentali che sono emersi dai primi tentativi di studiare la motivazione umana.

Gli esseri umani sono sempre stati interessati alla questione di che cosa ci spinga a compiere determinate azioni. La dottrina dominante, dai tempi di Platone e Aristotele fino a tutto il Medio Evo, e probabilmente ancora oggi, è che la mente controlla il comportamento, e che gli esseri umani sono liberi di scegliere che cosa fare.

Benché le nostre decisioni possano essere influenzate da stimoli esterni e da bisogni  desideri interni, le nostre azioni sono controllate dalla ragione.

Questa concezione è nota come dottrina del libero arbitrio.

Già al tempo di Platone vi erano persone contrarie all’idea del libero arbitrio. Il filosofo greco Democrito sosteneva che in natura tutti gli eventi risultano da concatenazioni inflessibili di cause ed effetti e che, se si conoscessero tutte le leggi di causa ed effetto, sarebbe possibile predire il comportamento della gente non meno che i moti degli oggetti inanimati. Questa dottrina è detta determinismo.

La concezione deterministica divenne più popolare dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie di Charles Darwin [1859]. Se gli esseri umani e gli animali hanno la stessa origine ancestrale e sono perciò strettamente connessi biologicamente, sembra ragionevole assumere che il comportamento umano – al pari del comportamento animale – è soggetto alle leggi di causa ed effetto.

Anche su questo tema, in psicologia abbiamo presenti molti diversi orientamenti.

Dal punto di vista, ad esempio, comportamentista di uno scienziato quale B. F. Skinner, una volta specificato in che modo l’ambiente etermina il comportamento si è detto tutto quel che c’e da dire sulla motivazione.

A molti, invece, le teorie legate all’idea di “libero arbitrio” appaiono più consone alla dignità umana di quanto lo siano le dottrine deterministiche.

Quanti di noi, in ultima analisi, sono disposti a credere che le nostre azioni sono determinate soltanto dall’ambiente?

E tuttavia Skinner sostiene con forza che, in realtà, il mito del libero arbitrio è estremamente pericoloso per la completa realizzazione del potenziale umano. Secondo Skinner, solo quando accettiamo il fatto che buona parte del nostro comportamento è controllata da politici, pubblicitari e altri manipolatori sociali, possiamo cominciare a elaborare democraticamente delle leggi che limitino questa manipolazione
interessata.

Una prospettiva psicologica

Il tema della motivazione, dunque, è ampio, complesso e discusso. La motivazione può essere infatti postulata in ogni attività psichica, da quelle più elementari e automatiche (percezione, apprendimento etc.) a quelle più strutturate (lavoro, amore, impegno etc.). Tale pervasività è stata giudicata negativamente da alcune scuole, che sono giunte fino anche ad eliminare il concetto di motivazione dalle loro concezioni
(scuole “oggettive” del behaviourismo americano o della reflessologia russa, correnti sociologistiche etc.).

Il concetto di motivazione si riferisce in particolare alla spiegazione dei fenomeni e non alla loro mera descrizione, al perché e non al cosa o al come, alle cause e non agli effetti, all’interpretazione (pur secondo modelli differenti) dei fenomeni e non alla loro semplice rilevazione.

Una motivazione è un processo che sollecita l’organismo all’azione, o che la sostiene e la indirizza una volta che l’organismo sia stato attivato.

Esistono diverse modellistiche motivazionali, che risentono dell’influenza di diverse weltanschauungen filosofiche.

a) Modelli intellettualistici: motivazione come “tendenza dominante” della soggettività cosciente, come “libera volontà” (Asch, Kulpe, etc.).

b) Modelli biologici: motivazione come “stato organico di bisogno” che tende al ristabilimento dell’omeostasi1 di base, col conseguente arresto
della stimolazione (Miller, Hull, Woodworth, etc.).

c) Modelli psico-socio-antropologici: motivazione come risultato della azione della matrice culturale e sociale, intesa come insieme di reazioni
all’ambiente apprese durante l’evoluzione (Kardiner e la “personalità di base”2, Mead, Benedict, etc.).

d) Modelli istintivisti: motivazione come “istinto” inteso in senso umano, come base costituita da una o più forze automatiche ed inconsapevoli, intrinseche alla costituzione del soggetto, non apprese, ma al massimo modificate dalle abitudini apprese (gli “istinti ed abiti” di James, le “hormé” di McDougall, i “meccanismi innati di sganciamento” di Lorenz, etc.).

e) Modelli psicosociali: motivazione come bisogno di sentirsi in sintonia col gruppo di riferimento, di dare e ricevere i diversi segnali di appartenenza (Newcomb, Bales, etc.).

In gran parte delle concezioni appena elencate manca, tuttavia, una soddisfacente organizzazione dinamica dei dati raccolti.

1 Si intende per omeòstasi il mantenimento della costanza delle relazioni e/o degli equilibri nei processi corporei (ad es. la glicemia, o il mantenimento degli equilibri salini nel plasma sanguigno).

2 Abraham Kardiner intende con tale termine “quella configurazione della personalità che è partecipata dalla maggior parte dei membri di una società, come risultato di esperienze della prima infanzia che essi hanno in comune”. La forma di motivazione che si sviluppa in essa determinerebbe a sua volta le istituzioni sociali secondarie. All’interno di questi modelli ricorrono anche termini come “ruolo”, “atteggiamento sociale”, etc.
In particolare hanno “fallito”:

1. per eccesso quelli che hanno creduto di poter risolvere il problema della motivazione proponendo liste più o meno lunghe di “motivi fondamentali”. Basta ricordare gli istinti di W. James, le propensioni native di W. McDougall, i “comportamenti innati” di E. L. Thorndike, i “driver” di E. C. Tolman, i “bisogni” di H. Murray, i “tratti” di R. Cattell, i 20 “bisogni fondamentali” di H. Piéron (da quello respiratorio
a quello della compagnia), etc. Tutti questi autori hanno cercato di integrare la loro lista di motivi fondamentali con i motivi acquisiti, ma non riescono a superare una classificazione di tipo puramente descrittivo;
2. per difetto quelli che hanno ricondotto tutte le motivazioni allo schema semplicistico della riduzione ad un solo bisogno fisiologico, primario, capace di dare origine a tutti i motivi secondari attraverso un processo di condizionamento ambientale. Questa teoria si rifà necessariamente al concetto di riflesso condizionato, ma non si adatta nemmeno a spiegare tutte le motivazioni riscontrabili nell’animale, e soprattutto non spiega la ricchezza e la qualità dei motivi propriamente umani. Tale osservazione vale, oltre che per la teoria fisiologica di C. Hull, anche per tutte le altre teorie “moniste” della motivazione, che cioè pongono in una sola variabile l’origine di tutti i motivi; come quella di S. Freud della libido, quella di A. Adler che la pone nella “volontà di potenza”, quella di K. Horney (“bisogno di sicurezza”), di C, Goldstein (“self-actualization”), di C. Rogers (“bisogno della integrità personale”), di P. Lecky (“self-consistency”) e di H. Mowrer (“ansietà di base”).
La panoramica appena vista è molto ridotta rispetto alla mole di proposte reperibili, a causa della necessità di trascurare gli elenchi che descrivono (specie in USA) i vari aspetti, o meccanismi, o motivi “fisiologici” (caldo e freddo, sete, dolore, sonno, condotta parentale e sessuale, etc.).

I meccanismi citati certamente esistono, ma non sono “vincolanti” già negli animali, e persino per molti behaviouristi; la motivazione umana mostra poi come caratteristica generale una forte indipendenza dalla sfera degli schemi innati e fisiologici.

Un modello psicodinamico

Vediamo allora un modello sincretico, che tenta di essere articolato e contemporaneamente organizzato dinamicamente in una unità significativa.

Esso coniuga motivi presenti sia negli animali che nell’uomo con altri, tipici solo dell’essere umano. I primi sono definibili in termini di motivi omeostatici (distinti in innati ed acquisiti) e di motivi anti-omeostatici, esplorativi e di associazione (anch’essi innati ed acquisiti). I secondi sono i motivi conoscitivi e di valore (a loro volta innati ed acquisiti).

• I motivi omeostatici innati sono quelli fisiologici di cui si è detto, fame sete, bisogno di scaldarsi etc. Quelli omeostatici acquisiti riguardano oggetti “neutri” che divengono mezzi per ottenere altri oggetti che a loro volta soddisfano direttamente bisogni biologici: pensiamo, nell’uomo a particolari abitudini, come il vizio del fumo, le tossicodipendenze etc.
• I motivi antiomeostatici riguardano una sfera di “bisogni di stimolazione dell’organismo”, in assenza di ogni bisogno omeostatico; ad es. la curiosità delle scimmie (McDougall) o dello stesso bambino, la tendenza a disfare ed esplorare meccanismi (scimmie di Harlow e ratti di Montgomery), l’intollerabilità umana delle situazioni di deprivazione sensoriale (Hebb e altri). Si tratta di bisogni di “eccitamento” che sono primari quanto i bisogni di abolizione dell’eccitamento stesso. Essi si esprimono per di più, a livello primario, in attività esploratrici e si
possono, quindi, chiamare motivi esploratorî: essi stanno probabilmente alla base dei bisogni di associazione. Passando a livello dei motivi antiomeostatici acquisiti, possiamo indicare questi ultimi come motivazioni psicosociali3, in prospettiva ampia. In tali motivazioni agiscono anche, in subordine, le spinte omeostatiche viste precedentemente, per una sorta di catena delle acquisizioni, una relazione dinamica fra i vari tipi di motivazione.
• I motivi conoscitivi e di valore sono tendenze a conoscere e regolare gli oggetti e le persone circostanti, in profondità. Fondano il bisogno di elaborare progetti, anticipando la realtà anche prima di conoscerla (condotta anticipatoria). Non è solo intolleranza delle situazioni prive di stimolo (antiomeostasi), ma una speciale qualità di funzioni psichiche. Configurano un fenomeno tipicamente umano: solo l’uomo si propone, vuole, si rappresenta conoscitivamente le cose, le persone, gli oggetti, se stesso, in complesse relazioni; l’uomo “pensa”, è capace
di volere in astratto una data realtà prima di attuarla in concreto e l’attuazione dipende dalla rappresentazione precedente. Ciò richiede delle capacità 3 Esempio di motivazioni sociali è la cosiddetta “triade di McClelland”, cioè i tre Needs: need for affiliation, need for power, need for achievement. Per affiliazione si intende il bisogno che si manifesta nella ricerca della compagnia, nel desiderio di essere amato ed accettato dagli altri, in quello di essere integrato in un gruppo, di avere appoggio e protezione; per potere si intende il bisogno che spinge a salire quanto più in alto possibile nella gerarchia del gruppo in cui si vive, a giungere a posizioni che permettano il controllo di molti mezzi e di molti uomini; per riuscita si intende il bisogno che si manifesta nella tendenza a compiere le imprese in modo migliore di quanto fatto dagli altri, a cimentarsi
preferibilmente in quelle caratterizzate da qualche connotazione di eccellenza. Altri autori coinvolti nella definizione di queste motivazioni sono Hawthorne, Redl, Adorno e la “personalità autoritaria”, Lewin e il “livello di aspirazione”, etc. rappresentativo-conoscitive perfettamente sviluppate, per cui uno stimolo può agire anche quando non è più presente e le motivazioni possono essere largamente indipendenti dallo stato organico: la motivazione esiste al livello della conoscenza e questa diviene il fine dell’azione motivata.
I motivi conoscitivi e di valore, a livello acquisito, sfociano nelle motivazioni personali di ordine superiore, ideale, civile, etico, religioso, politico, come anche gastronomico, estetico, tecnico, lavorativo sportivo, etc. Tutte, al limite, possono divenirlo, se interiorizzate personalmente a livello di valori fatti propri, autonomamente partecipati, intrinsecamente rielaborati, continuamente ridiscussi,
disponibili al cambiamento nel multiforme contatto con la realtà, reciprocamente arricchente. Vengono anche chiamate motivazioni integrative dell’Io: hanno un carattere peculiarmente umano e sono elaborate intorno al concetto di sé.

Il modello di cui stiamo parlando, messo a punto originariamente da Leonardo Ancona e dalla sua scuola, ripreso e sviluppato da G. Trentini, si articola sulla base di un approccio psicologico, definibile come psicodinamico, che, nello studiare e considerare le motivazioni, è direttamente o indirettamente (ma pur sempre in modo saldo) collegato con lo sviluppo delle correnti di pensiero derivate dalla psicoanalisi.

Esso conferisce il primato alla dinamica soggettiva e intersoggettiva profonda dell’individuo, con particolare attenzione al suo livello emozionale di funzionamento.

L’approccio psicodinamico fa riferimento a tre principi cardine, ordinabili secondo il modello suddetto, che può essere sinteticamente richiamato come segue:
A. Il Principio del Piacere immediato, inteso come impronta fondante del processo primario cui sono riferibili ed afferiscono tutti gli impulsi originari, tutte le modalità di tipo infantile, narcisistico-primarie, di gratificazione immediata e completa di ogni vicissitudine dei bisogni: il fatidico “tutto e subito”. In termini di processo, il valore è il seguire l’impulso via via nascente. Il livello motivazionale che ad esso corrisponde può essere sottoarticolato in due versanti: quello puramente innato e quello in qualche modo e misura influenzato dal contesto spazio-temporale.
B. Il Principio di Realtà, inteso come fondamento istituzionale del processo secondario cui sono riferibili ed afferiscono tutte le spinte mutuate dall’ambiente, tutte le modalità controllate e sociali di accendere e vivere le motivazioni, tutti i bisogni di gratificazione convenzionale e contingente, narcisistico-secondaria, eteronoma, eterodiretta: il fatidico “secondo le indicazioni e i flussi dell’adattività”. In termini di processo, il valore è adeguarsi e rinforzare la realtà.
Anche il livello motivazionale che corrisponde a questo secondo principio cardine e ordine si compone articolatamente di due versanti: quello per così dire totalmente “naturale” dei bisogni esplorativi, delle spinte alla rottura degli equilibri omeostatici eventualmente raggiunti, e quello del tutto analogo ma propriamente appreso o comunque derivato dall’ambiente fisico, umano e socio-economico-culturale circostante, per misurarsi e confrontarsi con esso. Nell’insieme, per l’intervento di questo principio, riscontriamo un agire che tiene conto della realtà esterna (con i suoi vincoli, le sue risorse, i suoi riti e le sue norme-valori): l’individuo ha ormai appreso la capacità di controllare le pulsioni primarie e di armonizzare, concertare, reprimere, dilazionare nel tempo e nello spazio il loro soddisfacimento, in funzione della realtà.
C. Il Principio di Valore, inteso come fondamento della capacità di elaborare e superare, da parte dell’individuo, anche il Principio di Realtà. Ad esso sono riferibili ed afferiscono le modalità personali di gratificazione dei bisogni (che inglobano anche quelli primari e secondari), quelle autonome e autentiche, post-narcisistiche, donative, di autorealizzazione ostativa, emotivamente mature, oggettuali: il fatidico “l’adattività
è attiva e non passiva, è in subordine all’ideale dell’io, nonché in sintonia critica con i partners significativi delle relazioni interpersonali e gruppali”. In termini di processo, il valore è ogni ideale personale. Anche il terzo livello motivazionale, quello che corrisponde a questo Principio dei Valori, deriva articolatamente da una duplice matrice: quella della spinta naturale ai processi di conoscenza, alla progettazione e programmazione anticipatoria, da un lato, e quella costituita dagli Ideali personali gradualmente formatisi e maturati intrasoggettivamente
e intersoggettivamente, dall’altro.

L’ultimo dei tre principi riguarda più puntualmente e precisamente la sfera dei “valori”, ed è quello che si afferma e cresce dopo ed attraverso il meccanismo di “appropriazione” della realtà, cioè dopo un consistente processo per così dire digestivo e metabolico, di sintesi personale, che ogni persona fa in modo unico, originale, creativo, irripetibile tra le motivazioni primarie e quelle secondarie. Il che accade appunto man mano che l’individuo passa. Mano a mano, gradualmente, senza soluzione di continuità, dall’omeòstasi all’antiomeostasi alla valorialità, intese come “centratura” del declinarsi esistenziale:
Dal pensiero primario… …al pensiero secondario… …al pensiero valoriale

Tutto e subito Rinvio e/o rinuncia
Progettazione anticipatoria Impulsività e immediatezza
Autocontrollo e controllo del mondo Interdipendenza col mondo
P. Piacere immediato P. di Realtà P. dei Valori
Pensiero magico Feed-back dalla realtà Innovazione sulla realtà
Onnipotenza predatoria Lavoro intellettuale e manuale
Creatività/Donatività autentica
Narcisismo primario e
secondario Dominio/Successo Autonomia (non indipendenza)
La sfera dei valori indicabile anche come degli Ideali Personali pertiene cioè alla maturata capacità dell’individuo sia di elaborare che di agire, congruentemente, in modo autonomo e personale, la sintesi tra primario e secondario, tra “interno” ed “esterno”, tra natura e cultura. E non importa in fondo se e quanto questo pertenga al livello conscio e/o a quello inconscio delle attività psichiche: sulla scena di entrambi i
livelli, in effetti, le forze in gioco sono inestricabilmente e iperdinamicamente chiamate a svolgere, ciascuna, la propria parte. Ne usciranno certo anche delle “cognizioni”

o dei “convincimenti” su ciò che è personalmente o socialmente desiderabile e preferibile; ma bisogna cercare di andare al di là di tale superficie pur reale. Secondo la prospettiva psicodinamica, il valore può essere dunque indicato come il vissuto personale di ciò che è da perseguire irrinunciabilmente sul lungo termine. In questo senso, come già detto, la sfera dei valori pertiene alla capacità dell’individuo
di costruire plasticamente in modo autonomo e personale una gerarchia interiore non razionalizzata e non necessariamente consapevole delle proprie motivazioni: una gerarchia ideale in grado di subordinare, incanalare e conglobare (non eliminare o reprimere!) anche i livelli primario e secondario della dinamica motivazionale, in un quadro funzionale armonico che veda nei “valori personali” il fulcro del sistema.